La Psicomagia di “Blackstar”
Come David Bowie ha trovato se stesso

Seppure trascorsa l’onda emozionale, ascoltare “Blackstar” (in vinile, prima stampa) è esperienza traumatica. Cercare di annodarne i fili significa ripartire da capo e proiettarsi nel futuro, compiere un viaggio con Bowie dai banchi di scuola al luogo in cui le ceneri di un essere umano sono destinate a essere sparse, nel vento dall’alto di una roccia a strapiombo sul mare. E la cerimonia inizia con il brano che apre la facciata A e che all’album dona il titolo. “Blackstar” si distingue in due parti che a ¾ si fondono. La prima sembra uscita da una pagina crimsoniana, la seconda da una dei Dead Can Dance. La voce al centro del tutto, una cadente dimora medioevale – «In the Villa of Ormen» dai segreti e significati esoterici impenetrabili e di libera interpretazione – in cui Bowie si muove come bardo ossianico. Invito spettrale, ma dal momento in cui il Farfisa intesse la seconda parte, orchestrale, la sua maestosa estensione dice che il viaggio psicomagico ci condurrà dalle radici del beat alla vetta della montagna sacra di ogni avanguardia Art Rock.
Il secondo brano “’Tis a Pity She Was a Whore” ha un incipit martellante che ti trascina in una lounge fumosa e malfamata di una città anni ’50, dove un crooner sta in scena accanto a qualcuno che picchia monotonamente su una batteria sgangherata. I fiati qui rasentano la follia. Jazzisti formidabili guidati da Bowie e Tony Visconti senza una sbavatura, da metronomo. Fra di loro, ai fiati Donny McCaslin, al basso Tim Lefebvre, batteria e percussioni Mark Guiliana.
Con “Lazarus” le cose cambiano e i brividi corrono, per la sua consistenza alla finale di “Blade Runner”, il tempo ormai fermo. Bowie lo fotografa nella sua amata New York, dove sussurra “ha vissuto come un re sperperando il suo denaro”. David chiude il cerchio, trova se stesso. Sei al mix del tuo ultimo album agli Electric Lady Studios cosciente che morirai a breve e dici a quel sax come deve entrare e lo strumento ubbidisce e ti sorride, anticipando i colpi di una chitarra sospesa nel cielo plumbeo della tua anima.
La side B si apre con “Sue” ha una struttura da sezione ritmica tagliente britannica, di batteria/percussioni/basso su cui Bowie usa la voce per innestare a cascata, le tastiere. Ostinandoci a voler dare un “senso storico” a questa musica di Bowie potremmo azzardare un suo lontano ipotetico parallelo con quello che i King Crimson non sono stati dopo la loro prima incarnazione, se al posto di Lake ci fosse stato Bowie e al basso fosse entrato Jannick Top dei Magma. Impietoso e sempre più furioso, il materiale sonoro qui, come se alla regia ci fosse una creatura alla Frankestein, la testa di Bowie, le gambe di Vander e le braccia di Fripp.
Se sin qui ti sei lasciato prendere, “Girl Loves me” rischia di farti lasciare. Tanto il testo, quanto la musica diventano favola schizofrenica, saltellante, manicomiale, non fosse per i cori che Bowie mantiene miscelati a tappeto. Il brano si dipana come su un teatrino delle marionette e in questo forse ha sempre avuto ragione lui, lasciare che la vita resti in sospeso, zen allo stato puro. Il testo è senza fili, la filastrocca grottesca, operazione zappiana con una sua logica sottotraccia, nelle partiture di archi, bruscamente interrotte a mo’ di finale cinematografico.
“Dollar Days”, sin dall’inizio si annuncia come una ballad da cattedrale elettronica, il beat della creazione del tutto in un’epoca in cui ancora le grandi orchestre facevano la musica che la gente ascoltava seduta ai tavoli in abito da sera… E Bowie canta elegantemente la sua morte qui, la spiega nel suo essere sincero sino in fondo,«I’m Dying To» che suona «Too» si capisce per come lo pronuncia. Le ultime mani del suo poker con la vita Bowie le gioca con un complice, un sax che Gerry Mulligan avrebbe voluto suonare, incantato ed epico come nella “Gandharva” di Beaver & Krause. Senza soluzione continuità arriva il finale, “I Can’t Give Everything Away”. Non posso dare via tutto. Qui Bowie gira le riprese della scena finale sul set del suo film, per una trama alla quale non voleva mettere la parola fine, costretto da esigenze di copione. Deve molto alla frippertronics, dal momento in cui dice«I know something is very wrong» e costruisce un’invocazione iterativa, a noi rivolta, scandita dalla chitarra che entra lancinante dentro, deve ripetersi, ancora e ancora e ancora e ancora.
La luce della lampadina accanto alla scrivania si affievolisce lentamente, emette flash sempre più fiochi, come respiri che si spengono, mentre termino gli appunti al primo ascolto di questo capolavoro. Mi alzo e mi avvicino al giradischi su cui la testina gira ancora, la alzo e torno a sedermi. Nella stanza resta acceso solo lo schermo del computer.
Maurizio Baiata, 5 Febbraio 2016
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