Con la scomparsa di Keith Emerson avvenuta il 10 Marzo scorso, la storia del grande Rock ha perso una delle sue figure più carismatiche. Prima con i Nice, poi con Emerson, Lake & Palmer, gli anni Sessanta e Settanta furono segnati dal suo genio che, oltrepassate le linee di demarcazione fra Jazz, Rock e Classica-Sinfonica, attraverso l’elettronica, l’improvvisazione e le super amplificazioni aveva indicato la strada per la Teoria Unificatrice, per il nuovo mondo che qualcuno anni dopo avrebbe definito propriamente o meno “Progressive Rock”.
Tutto questo ebbe un costo. ELP furono accusati di aver disperso la propria vena creativa, compositiva ed esecutiva in nome della spettacolarizzazione e della mercificazione di se stessi, ridotti a mero “prodotto di consumo”. Anziché unire, ELP stavano dividendo e, rispetto a tale situazione anomala, Emerson, Lake & Palmer, la rock band allora più famosa, finì sotto il tiro incrociato di gran parte della critica mondiale.
Nel Marzo 1972 il settimanale “Ciao 2001” mi chiese di redigere un articolo che facesse il punto sul piano strettamente musicale e che, se vogliamo, calmasse le acque agitate anche in seno alla Redazione diretta da Saverio Rotondi. Qui ne ripropongo la trascrizione letterale del testo allora pubblicato, con l’aggiunta di una Nota di chiusura.
Maurizio Baiata, 30 Marzo 2016
Emerson, Lake & Palmer – Facciamo il Punto
Emerson Lake & Palmer è stata ed è tuttora una delle formazioni più significative della Pop Music. A cosa deve il proprio successo? È possibile, attraverso l’analisi delle opere prodotte, sino ad oggi stabilire se il complesso ha esaurito il proprio discorso musicale e stilistico, o se invece deve ancora maturare nella ricerca di una propria originalità?
da CIAO 2001, anno 4, n.9 – 5 Marzo 1972
Da pochi giorni è stato pubblicato in Italia, e contemporaneamente in tutto il mondo, il terzo LP di Emerson Lake & Palmer, formazione universalmente considerata tra le punte del new sound inglese. Questo articolo vuole ripercorrere in modo completo la storia del complesso, soffermandosi sulle origini dei singoli elementi e sulla discografia in nostro possesso. Ci era già capitato di scrivere di ELP al momento dell’uscita di “Tarkus” ed in quella occasione avevamo dimostrato una netta preferenza per un gruppo ed un disco che si esprimevano in modo estremamente personale, anche se non compiuto sino alla perfezione, e racchiudente in sé i caratteri della ricerca verso nuove sonorità, nuovi significati.
Facile chiedersi come si fosse arrivati alla suite dell’“Armadillo preistorico”: cerchiamone le possibili basi nella storia di Keith Emerson e di Greg Lake. Il primo, delle cui umili origini ormai tutti sanno, si era incontrato con tre musicisti, Lee Jackson, Brian Davidson e David O’ List e, dopo un periodo di asservimento ad una certa PP Arnold, periodo che, nonostante la mediocrità del sound prodotto, era servito all’accrescimento della conoscenza fra i quattro strumentisti, Keith diede l’avvio, con i tre compagni, a quella che sarebbe stata una delle formazioni più rappresentative degli anni ’60: i Nice. L’organista, immediatamente divenuto il leader del complesso, affinava il proprio stile, subiva influenze ora jazzistiche ora classicheggianti da cui scaturivano componenti musicali estremamente varie che, ancora in embrione, trovavano luce nel primo LP del group, “The Thoughts of Emerlist Davjack” praticamente passato in sordina sia per la critica che per il pubblico. Il successo, strano a dirsi per una formazione non commerciale, arrivò con un 45 giri, “America”, cui fece seguito dapprima l’abbandono di O’ List dall’organico e quindi un nuovo LP, questa volta vera e propria pietra miliare della rock music: “Ars Longa Vita Brevis”. L’album sviluppava appieno la componente classicheggiante presente nel gruppo e raggiungeva i suoi vertici espressivi nei Concerti Brandeburghesi e la Karelia Suite di Sibelius. Notevole questo momento, soprattutto dal punto di vista della creatività, perché, in Keith Emerson, rappresenta la sintetizzazione perfetta delle due componenti, classica e jazzistica, che ora trovano logica e libera espressione, da una parte per merito dell’orchestra, dall’altra nello sfruttare una ritmica nuova, suggestiva soprattutto nel background offerto dal batterista, che dialoga incessantemente e mirabilmente con timpani ed archi, e dal bassista che si dimostra elemento insostituibile nei passaggi più monocordi (quali poi potessero essere) dell’organo.
Il terzo LP denuncia un temporaneo abbandono del tema sinfonico e il tutto diviene, sia nella parte dal vivo che in quella registrata in studio, un incessante cammino verso nuove sonorità, che soprattutto in “Rondo”, “For Example” e “Azrael Revisited” esprimono il secondo momento, se vogliamo, di influenza, ma comunque di maturazione, del carattere emersoniano, vale a dire quello propriamente jazzistico.
Passiamo al quarto LP, “Five Bridges” che segna un collegamento diretto con “Ars Longa” a causa della preponderanza del classico, che il tocco di Emerson ora riesce a sensibilizzare in aggressività e calore rimico, sia nelle sezioni al pianoforte che in quella all’organo. Il discorso discografico si conclude con “Elegy”, in pratica una raccolta di successi, ma completa sintesi, in particolar modo nella prima facciata, dell’opera emersoniana all’interno dei Nice.
Parallelamente si snoda la strada di Greg Lake, originario bassista dei King Crimson, sostituito dopo l’incisione di “In the Wake of Poseidon” da Gordon Haskell e giunto con Carl Palmer, ex batterista degli Atomic Rooster, a formare il nuovo gruppo di Keith Emerson. Per i tre, prima fatica discografica dopo soli quattro mesi, dal momento della nascita del gruppo, periodo trascorso non in sala di incisione, ma in continui concerti in pubblico che contribuiscono alla diffusione del nome e dello stile della formazione. L’album è un capolavoro: semplicemente stupendo come coesione fra gli strumenti e nei suoi sei pezzi, ormai storici, riesce a mostrare persino l’impensabile. Lo sperimentalismo che pervade alcuni solchi non è un semplice tentativo, perché Keith aveva già provato il Moog con i suoi vecchi compagni, pur non facendolo apparire mai nelle incisioni ufficiali e perché soprattutto Greg Lake, personalità pari all’organista e, anzi, naturalmente spiccante nelle sezioni acustiche, non assume il compito di gregario ma porta in sé tutta la mostruosa carica di creatività poetica derivatagli dall’esperienza crimsoniana, influenza che si estrinseca in modo eccellente in “Lucky Man” e in “Take a Pebble”, dove l’atmosfera diviene più sognante, a tratti rarefatta, ricca di sospensioni armoniche e di tentativi espressivi importanti anche per quanto concerne i testi, ora dolci ed eterei, ora oscuri e allucinanti. Quel carattere primo che aveva fecondamente impressionato l’estro emersoniano in “Ars Longa Vita Brevis” trova ora felicissima espressione in quella sorta di suite che va considerata “The Three Fates”, esplosione di vitalità ed intelligenza musicali. Una parola dobbiamo spenderla per l’innesto magistrale di Carl Palmer, nelle rade sezioni a lui dedicate, ma i cui spunti di elettronica trovano una giustificazione solo estetica e formale.
Di “Tarkus” moltissimo, a proposito e non, è stato scritto e poco vorremmo aggiungere a quanto detto in fase di recensione: se si hanno delle eccellenti conferme soprattutto da parte di Lake, si devono anche notare delle battute d’arresto, non in fase strumentale, quanto in quella creativa, perché la mitica storia dell’infelice e mostruoso essere preistorico, seppure sorretta da un sound trascinante, continuo ed estremamente vario, denuncia una limitatezza di contenuti cui si cerca di sopperire mediante l’ausilio di un’esasperata elettronica e di sapienti manipolazioni d’incisione. Si è parlato, anzi si è tentato di includere in questa opera dei termini jazzistici inesistenti o irrilevanti: la seconda facciata se da un lato mostra nuovamente sprazzi in tal senso, vedi “The Only Way”, si dimostra priva di coesione e con troppi accenti all’effettismo, verso cui spesso convolano l’esuberanza di Emerson e, forse, la mancanza di freddezza di Palmer e quindi si giunge ad una certa, seppur dosata, commercialità. Abbiamo stilato questo giudizio poco lusinghiero nei confronti di questo album di ELP solo oggi, a cinque mesi dalla sua uscita e dopo aver subito il fascino indiscutibile della novità e dell’effettivo splendore cromatico delle finiture, se tali possono chiamarsi, purtroppo non dell’essenza di un’uscita importante quale “Tarkus”, che resta comunque un momento musicale da non perdere.
Passando all’ultimo disco del gruppo, “Pictures at an Exhibition”, recentemente recensito, ci rifacciamo a quanto detto per “Tarkus”, solo che ora il discorso appare più complesso, vuoi per la sua struttura interamente dal vivo, che giustifica e glorifica pecche e pregevolezze, vuoi perché l’opera si mostra incompiuta, vale a dire limitata nuovamente nei suoi possibili sbocchi contenutistici, come era accaduto nell’album precedente. Il suo maggior pregio va ricercato nel tentativo riuscito di trascrivere una partitura classica in termini moderni (non crediamo che Musssorgskyi si stia ora rivoltando nella tomba), ma la reinvenzione giustifica solo in parte i momenti di attesa, di illogicità che “Pictures” fatalmente denuncia. La spiegazione va ricercata nella presunta preminenza del gruppo sulle altre formazioni del settore, nella troppo esaltata strapotenza di Emerson alle tastiere, e, questo il punto dolente, nella notevole commercialità di un prodotto certamente non nato come tale, ma tale divenuto “a furor di popolo”. Che questo giudizio possa essere in gran parte contrastante con gran parte della critica e con l’attuale gusto del pubblico, ci rendiamo pienamente conto, ma abbiamo voluto tentare un’analisi critica, oggettiva all’eccesso e imparziale dell’opera di una delle formazioni oggi maggiormente seguite e osannate. Invitiamo i lettori a esprimersi in proposito.
Nota – Marzo 2016
Non ricordo se da parte dei Lettori giunsero o meno commenti, che venivano abitualmente convogliati nella rubrica L’Angolo del Pop da me curata o, talvolta, nelle Lettere al Direttore. Di certo ad ELP Ciao 2001 dedicò molti altri altri articoli, a firma di Enzo Caffarelli, Michel Pergolani (alias “Trashman”) con le sue bellissime cronache e interviste da Londra, di Renato Marengo, Manuel Insolera, Marco Ferranti e Fiorella Gentile, solo per citare alcuni colleghi che se ne occuparono. E, per tutti, ELP rappresentarono un punctum dolens. Nei due anni successivi le polemiche crebbero a dismisura, sino a creare fazioni contrapposte all’interno della redazione di Ciao 2001 e anche nella massa enorme di fans del gruppo inglese.
Le fazioni di chi avrebbe voluto vedere tornare ELP a dimensioni musicali e di live show più contenute e non ipertecnologiche e disumanizzate, ma che in fondo li amava ancora e chi, invece, li odiava e li aveva presi ad esempio di simulacri musicali da abbattere in quanto prodotti del sistema, da condannare e combattere anche con la violenza. Questo accadeva abitualmente ai loro (e non solo) concerti italiani costellati da violentissime scorribande sugli spalti, furibonde azioni punitive contro tanti ragazzi inermi rei di essere lì ad ascoltare i loro idoli, per non parlare delle guerriglie, fra lacrimogeni e distruzioni dentro e fuori le strutture che ospitavano i grandi eventi Rock e manovre organizzate contro le forze dell’ordine. La band ne sapeva qualcosa, poteva esserne co-responsabile? No di certo. I tour venivano pianificati e le date poste in essere in ragione delle possibilità degli spazi, non delle esigenze tecniche e, soprattutto della sicurezza. Prova ne sia che nei palasport e negli stadi il messaggio del Rock sarebbe stato strumentalizzato e connotato ancora più negativamente che non negli anni Sessanta, non solo a favore dello status quo della società perbenista, ma anche per chi avrebbe ordito la strategia della tensione nel nostro disgraziato Paese. Questo, nonostante quelli di Ciao 2001 fossero bene informati, non lo avevano capito.
Maurizio Baiata, 29 Marzo 2016
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