Sono ancora frastornato. Ho negli occhi scene, spezzoni, raffiche a flash del film. Hanno lasciato il segno. Percorro in fretta dalla metro i 400 metri che mi separano da casa, serata fredda si preannuncia anche questa e aumento la frequenza dei miei passi, sono lontani i tempi in cui andavo a correre e poi sto misurando le forze dato che, mi hanno detto, il freddo incide negativamente sulla pressione, che da un mese e mezzo cerco di tenere sotto controllo. Il film la pressione me l’aveva alzata.
Sui titoli di chiusura, si riaccendono le luci della splendida sala dell’Anica che ha ospitato la proiezione di “Arrival”. Gli onori di casa di questa anteprima romana ad inviti li aveva fatti il Centro Ufologico Nazionale, organizzatore con la Warner Entertainment. Un’occasione di incontro con diversi colleghi ufologi di un tempo, fra i quali il segretario generale del CUN (al suo cinquantesimo anno di vita) Roberto Pinotti e il presidente Vladimiro Bibolotti. Sono loro che dopo il film invitano il pubblico a dire la propria impressione a caldo, coinvolgendo anche me. Ma l’emozione mi aveva tolto il fiato e quel poco che ho detto ha lasciato intendere che se avessi dovuto scriverne in quel momento mi sarei ritrovato 30 anni indietro e nel futuro allo stesso tempo e che quanto avevo appena vissuto era stato indescrivibile. Non molto, in una sala piena di critici cinematografici.
Un’ora dopo. Infilo la chiave nel cancello sulla via dove abito e noto un tizio con una leggera casacca rossa e senza berretto, che mi viene incontro ciondolando un po’ e farfugliando qualcosa. “L’illuminazione… cosa è l’illuminazione?!” esclama, mentre il suo sguardo fissa il vuoto in alto alle mie spalle, fra il cielo e un cornicione e poi mi sorpassa e con voce chiara e alta dice: “Illuminazione è mettere in ordine le cose”.
Ora comprendo. Quelle due ore dirette da Denis Villeneuve (al quale è stata affidata la regia di “Blade Runner 2049”) sono due secondi, sono pochi attimi della nostra vita a contatto con una realtà entrata di prepotenza nel presunto presente delle moltitudini di persone che vivono nei Paesi di tutto il mondo. Sono il nostro quotidiano quindi che ci spinge ad amare e a volte ad odiare la nostra esistenza quando il dolore si fa grande portatore di una discesa senza fine e, giunti al fondo della corsa, possiamo solo tentare di risalire. Non esistono ascensori e non ci sono musiche di sottofondo. L’aspetto peggiore è la solitudine, quando per anni hai provato il contatto, l’affetto, la gioia di una presenza accanto a te, poi d’un tratto essa ti viene strappata.
Ma se. Se solo. Se in quel micro secondo ci sentiamo esseri infiniti, eterni, meravigliosamente seppure incomprensibilmente connessi con l’Universo e con il Tutto, con l’Amore Infinito, se riusciamo a fissare l’immagine di un ciotolo levigato dall’acqua in cui il tempo e la natura lo hanno depositato e una piccola mano lo raccoglie e te ne fa dono, allora le cose vengono messe in ordine.
Ma se. Se solo un film, un’opera di ingegno cinematografico, con tutte le sue implicazioni e complicanze di ideazione, di produzione, di casting, montaggio, colonna sonora, distribuzione, non fosse stata realizzata per il mero intrattenimento, ma procurasse nello spettatore il risultato di bloccarne contemporaneamente le facoltà percettive, intuitive e intellettive e le tenesse in sospeso per una quantità di tempo non quantificabile. E in quello stato di grazia, lo spettatore capisse di far parte della storia alla quale ha assistito e che l’Illuminazione in un solo attimo ha messo almeno alcune delle cose a posto.
Allora “Arrival”e la materia che lo compone, sono materia vivente, perché siamo noi, gli Osservatori, a percepirla come nostra e le sue vibrazioni sono talmente potenti che, in questo momento, la mia vecchia scrivania viene scossa dalle onde di un terremoto.
Maurizio Baiata
18 Gennaio 2017