OAK – “VIANDANZE”
recensione di Maurizio Baiata
L’aver chiuso le frontiere della passione e dell’invenzione in nome della ragione, in questi ultimi anni nella pop music ha assunto proporzioni parossistiche. La ragione ha imposto le definizioni, le classificazioni, categorie e sottocategorie e, per chi abbia superato i cinquanta, entrare in un negozio di dischi oggi e orientarsi grazie a quelle etichette che fanno da marker, da indicatori di direzione, a tratti appare utile, a tratti ci fa assalire dalla sensazione frustrante di esserci svegliati nel secolo sbagliato. Poi invece, ti capita un cd come “Viandanze” e le cose tornano al posto giusto. Sì, non hai bisogno di ansiolitici per districarti, qui ci sono solo menestrelli e cantori, ma elettrificati e battaglieri, e saltimbanchi e pifferai, ma ben accordati, che fanno tutti lo stesso gioco, suonano e cantano per la gioia del nostro spirito. Non da poco, per l’epoca in cui viviamo.
“Oak” la quercia, simbolo delle radici che affondano in un terreno per restarci e crescere, incarna un gruppo che appartiene a un modo di fare comunicazione acustica e visuale, non Rock come linguaggio, ma come simboli che evocano immagini ed emozioni senza tempo. Simboli che troviamo subito nell’incedere chiaro e pulsante di “Magica Noce”, brano di apertura caratterizzato dal flauto di Jerry Cutillo e dalle voci bianche degli alunni della scuola elementare di Faido, un paese della Svizzera Italiana dove sono stati realizzati i mixaggi, negli studi Sound Avenue di Bellinzona. Come a dire che una tradizione risalente al tempo di danze gioiose che la macabra inquisizione volle trasformare in roghi e tragedie, in realtà era il girotondo e il salterello per trovare il contatto con l’essenza della natura, fra il femminile e il maschile, nel compimento di un’opera alchemica tesa al centro dell’essere, il super essere androgino.
Se molto di questo album rapisce l’animo attraverso i testi che denotano uno studio profondo delle tradizioni, del rapporto di ciascuno di noi con le sue origini, il formato compositivo – in quelle manciate di tempo che racchiudono una storia musicata e cantata – lo guida mirabilmente. La commistione fra narrazione e suono si trova estesa come le pagine di un libro di fantasy, o meglio di realismo fantastico. Un profondo suono di mantra tibetano introduce al pianismo leggero di “Snegurochka”, il secondo brano il cui sviluppo avviene a onde impetuose che si alternano a distensioni fiabesche attraverso diversi “movimenti”, a mo’ di mini-suite classica del primo new sound britannico degli anni ’70. Vi appaiono flussi di tastiere che mimano il Mellotron sulle rive dei romantici Renaissance ed echi violenti dei Family di Roger Chapman. Nulla di maldestro e posticcio, in certe risonanze al passato che affiorano anche in “Holy Bells”, ma tutto viaggia su “partiture” autogene e originali. L’album non fa sfoggio di luci riflesse.
Jerry Cutillo, il leader naturale degli Oak, ha una teoria: una formazione Rock & Prog deve essere aperta, policroma e cangiante, gli strumentisti possono essersi formati a scuole diverse, attraverso attenti ascolti e sane letture, ma solo la passione deve muoverli e il principio del liberare la mente dalle sovrastrutture. Lo si comprende sempre più nella progressione dell’album, che con “Kepler 452b” giunge a un crocevia. Del tempo. Si va a ritroso e a balzi in avanti, si dialoga con la scuola di Canterbury e le filastrocche alla corte dei Borboni, sino a Borgo Pio e i vialoni sul Lungotevere. Non a caso, il “mistero” del tempo che ci è concesso in questa vita terrena e che appare solo una convenzione per scandire metricamente quello che possiamo e non possiamo fare, si rispecchia letteralmente nel testo di “Giubileo”: “Is the Suicide of the End” ripete il canto corrosivo sino al midollo, oggi che la porta dei cieli si vuol far passare ancora per le maestose arcate di Piazza San Pietro. Se nel brano ci sono richiami alle origini del Folk inglese, come ai Gentle Giant, Cutillo lo fa con il cuore in mano, come dono sincero ai giganti gentili, non ammicca e non spaccia nulla, lo dice chiaro che la Musica è un cerchio magico, la cui unica regola aurea è diventare noi stessi il “pittogramma” della nostra vita. Avete presenti i cerchi nel grano? Beh, si formano non si sa bene come su quelle verdi campagne inglesi, per esprimere sogni ancestrali per breve tempo, a volte lo spazio di una notte o poco più, ma restano impressi nel cuore della memoria, come la figura di un padre amato. E questo vediamo e sentiamo nel brano conclusivo, bellissimo, “My Old Man”, con al basso Jonathan Noyce (Jethro Tull e Gary Green) il cantato in Inglese di Jerry Cutillo, il fantastico Napoletano di Jenny Sorrenti, il lancinante assolo di sax di David Jackson e l’ultimo accordo in pianissimo che si affievolisce nel silenzio.
Nell’organico di “Viandanze”, oltre a Cutillo (voce, flauto, chitarre e tastiere), ci sono: Al Bruno (chitarra), Francesco De Renzi (tastiere), Mauro Gregori (batteria), Luis Ortega (basso), Charles Yossarian (batteria), Marco Viale (sintetizzatore), Michele Vurchio (batteria) e Iacopo Ruggeri (chitarra).
Maurizio Baiata, 6 Aprile 2016
Per info e per acquistare il cd di “Viandanze”: www.oaksound.com
Oppure scrivere a: jerryoakull@virgilio.it
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