Grazie a Internet e ai siti che si occupano di Musica Italiana Progressive degli anni ’70, sono in grado di pubblicare miei articoli del passato, che mi stanno particolarmente a cuore. Vivevamo tempi difficili e il Suono viaggiava sulle onde della liberazione, dagli schemi, dalle trappole del perbenismo e dell’omologazione. Il Rock era linfa vitale, energia forte che alcuni gruppi riuscivano a raccogliere su album in vinile. Era, anche, ricerca pura e molte sonorità si aggrappavano a spazi lontani… ma la mente non vagheggiava. Come dimostra oggi, in tutto il mondo, il fatto che il Balletto di Bronzo e altre nostre formazioni di allora sono per molti giovani, un cardine del loro pensiero e, nel contempo, un mezzo per spezzare le catene. Gli articoli qui riproposti mostrano, a distanza di cinque anni l’uno dall’altro, il senso della lotta che i nostri musicisti intraprendevano ogni giorno, non certo per affermarsi, ma per dire alla coscienza di altri che avevano una vera ragione di esistere. Maurizio Baiata
ARTICOLO AGGIORNATO IL 18 GIUGNO 2015
IL BALLETTO DI BRONZO: VISIONI DI UNA COMPOSIZIONE
di Maurizio Baiata (da Ciao 2001 n. 33-34 del 10 settembre 1972)
Ci stiamo riuscendo, lentamente ma con fermezza andiamo finalmente affrancandoci dalla vita insulsa di riflesso e di riverenza nei confronti degli stranieri. Lo scrollarsi di dosso il lavoro altrui, nella fattispecie gli insegnamenti esteri, è stato sempre il nostro tallone d’Achille, la castrazione monotona e ripetitiva dei tentativi più disparati che i nostri artisti portano avanti ormai da qualche anno, e mediante i quali si cercano vie intentate, suoni e colori che non debbano necessariamente ricondursi al lavoro già da altri intrapreso.
Accanto alle formazioni oggi affermate, ma non a furor di popolo, piuttosto riconosciute dagli intenditori e, se vogliamo, dalla critica, collocherei senza il minimo dubbio questo Balletto di Bronzo, formazione che già qualche anno fa si fece notare positivamente, seppure con un diverso organico. Oggi i quattro ragazzi del Balletto hanno a loro attivo un primo album, recentemente pubblicato, quantunque frutto di un lavoro di registrazione ormai risalente a parecchi mesi fa e forse superato dagli stessi ultimi intendimenti musicali del gruppo. Il commento a quest’opera davvero interessante, il colloquio avuto con Vito Manzari, bassista del gruppo, mi forniscono i dati essenziali per un discorso che vorrei fare, in un contesto, fra l’altro che non offre poi tantissima voglia di farlo spesso e con piacere. Ma il Balletto di Bronzo è un’eccezione, come forse altre due o tre possono oggi trovarsi in Italia, e merita davvero la nostra attenta considerazione; un invito, quindi, all’ascolto di “YS” e ad una maggiore considerazione nei confronti di quelle formazioni nostrane che lavorano seriamente.
Cominciamo con l’esame dell’album, cui alternerò poi a tratti le considerazioni personali di Vito e quelle del sottoscritto, entrambe come al solito da prendere solo in misura indicativa. Innanzitutto ci troviamo di fronte ad un album “concept” secondo una particolare visione di un’opera che, ai fini di una maggiore compiutezza e logicità totale, necessita di un canovaccio di testi, in pratica di una storia che faccia vivere, nelle parole, le visioni di una composizione cromatica musicale.
Accanto a questa, notiamo la presenza di altre costanti ricorrenti: una visione coristica che non ha riscontro in altre proposte del settore, il succedersi di quadri compositivi apparentemente slegati, ma sottilmente intessuti della stessa trama di tempi e di battute, momenti di improvvisazione che sfruttano sapientemente giochi modulatori ora jazzistici ora classicheggianti, infine numerosi accenni alla dodecafonia, ma che vedremo più in particolare fra poco. La trama di tutta l’opera viene esplicata nei versetti iniziali: “La voce narrò, all’ultimo che sul mondo restò, la vera realtà – E poi comandò di andare tra i suoi a dire la verità e il gioco iniziò”, momento versificatore dell’allucinante ed onirico viaggio che il protagonista compie in un mondo ormai non più suo, perché dominato da una morte fisiologica, conseguenza di chissà quale guerra o morbo, da cui è miracolosamente scampato. Nel cammino fra macerie naturali e psicologiche il nostro protagonista riuscirà, forse, a scoprire se stesso, ma, Diogene moderno, resterà vittima del silenzio e del buio eterni. Niente belle favole o melense atmosfere amorose, dunque, piuttosto la consapevolezza di una transitorietà naturale che “YS” nella sua brevità compostivi, restringe, ma non costringe, al connubio parole musica.
Vediamo come: I momenti introduttivi sono frutto della collaborazione fra organo e celeste, strumento questo che ricorda come tonalità il vibrafono, ma da cui si distacca come versatilità d’impiego e piacevolezza d’armonia: la parte strumentale è completata da veloci stacchi di moog, e da allucinanti sequenze coristiche, retaggio evidente di insegnamenti dodecafonici propri soprattutto di Schoenberg e della sua scuola delle “dodici note”. Vito mi precisa come questo concetto di musica d’avanguardia (per quanto possa essere propria la definizione) derivi da un allargamento dell’improvvisazione a livello di espressione personale, dove si cerchi di superare le barriere restrittive e standardizzate della musica più abituale: la necessità di atmosfere che definirei più comuni, come nei passaggi più salienti di “Primo Incontro”, fa sì che al cromatismo illogico e cruento dei momenti precedenti si sostituisca una ricerca più usuale, regolata in pratica dall’uso del mellotron e del sintetizzatore, con contrappunti notevoli nella chitarra e nel pianoforte. La batteria, nel frattempo, viene a costituire un mondo estremamente personale, che in pratica fa da guida all’ascolto dell’intero album assieme alla voce di Gianni Leone, che è fra l’altro l’ottimo keyboardista della formazione, voce che però non convince totalmente e che rischia, a tratti di spezzare l’unitarietà della composizione tutta. Se altri appunti è necessario fare, ricorderei l’uso innato in noi italiani di un lavoro solistico spesso esasperato per i vari strumenti: nel Balletto questo avviene solo tangenzialmente, ma avviene, e sarebbe forse un qualcosa da rivedere in sede di seconda incisione.
Molto maggiori i motivi di lode, comunque e soprattutto nella seconda facciata dell’album, la più interessante certamente, come sviluppo armonico e completezza di idee, ma anche a livello strumentale, data la parziale mancanza dei cantati, sostituiti da magnifici momenti coristici. Questa seconda parte viene introdotta da un mellotron dolce e sinfonico, cui però fanno riscontro i passaggi ossessivi della batteria ed i sincopati di un Hammond spesso al lavoro con un Echo Binson di sostegno e della chitarra, stranamente elaborata dal suo bravissimo possessore, Lino Ajello. Il mellotron, fra l’altro, è spesso regolato su tonalità meno epiche e sinfoniche del solito e si invola verso atmosfere flautistiche che non dispiacciono, ma che anzi vengono a corroborare i momenti più palesemente jazzistici che il Balletto persegue. Ci sono difficoltà, a questo punto, per la descrizione di un album che va evolvendosi continuamente, che tocca le più diverse strade compositive, che lascia quindi moltissime possibilità critiche e di godibilità, che in pratica un ulteriore e personale giudizio verrebbe a compromettere nel lettore-ascoltatore.
Ma la parte finale dell’album merita davvero un discorso approfondito, anche se ristretto. Da “Terzo Incontro ed Epilogo” si trae l’impressione di trovarsi duna delle migliori nostre formazioni: forse la migliore per quanto riguarda il visionismo e la varietà armonica di questi prolungati ed allucinanti momenti di chiusura, con i quali torniamo inevitabilmente alla musica d’avanguardia. “Sfruttare queste tecniche così particolari ed apparentemente irrazionali, vuol dire la possibilità di accostamenti mai formali, mai fermi allo spazio breve ed alla irrisolutezza della musica necessariamente “finita”. La musica che se ne trae, viceversa, è infinita, naturalmente in un contesto di spazialità e di totalità che un disco deve rispettare”. Questa le parole di Vito in proposito: di mio vorrei dire che le idee del Balletto di Bronzo, vanno, è vero, a confluire in un contesto giù ampiamente sfruttato, ma ancora tutto da scoprire e godere, quale quello della composizione a dodici note, elettronica e pura, con l’accostarsi a scuole e stili che fra l’altro hanno in compositori italiani dei validissimi rappresentanti, Per chi sa di chi stiamo parlando e voglia approfondire il discorso, mi pare ci sia un’assonanza con i primi tentativi di Penderecky, ma preferisco non addentrarmi in un contesto non del tutto mio e, dal Balletto, toccato solo in momenti musicali estremamente particolari.
Resta indubbio il fatto che “YS” e la sua conclusione soprattutto vengono a confermarci l’ottima preparazione di una formazione cui va il merito notevole di aver creato una “composizione” nell’accezione più valida del termine, le cui visioni allucinanti, spaziali, formali ed informali, lascio ora al piacere ed alla sensibilità di quanti sperano in un futuro musicale fatto davvero di idee nuove.
“Best” – N.5 del 1977 – Scheda di Maurizio Baiata
Poco più di una cartella per il Balletto… sono quasi costernato, dopo avere ascoltato il primo ed unico album di questo gruppo , “YS” almeno… per cinque anni, ancora la formula sfugge, il perché non siano andati avanti, con la potenzialità enorme di un suono con in Italia non si è mai più fatto. All’apparenza il Balletto si presentava come una propaggine del suona anglosassone di tipo classicheggiante, vuoi per le atmosfere stesse proprie della formazione partenopea… a proposito della genesi del Naples sound una tappa fondamentale è proprio il Balletto misconosciuto e troppo presto messo nel dimenticatoio.
Dicevo di atmosfere: quelle del gruppo di Gianni Leone, chè quasi tutto a lui è dovuto nell’economia strutturale delle composizioni, escono davvero dal seminato del pop italiano che tutti conosciamo. Grandi spazi improvvisativi, dialoghi serrati tra gli strumenti, gli impasti vocali sono assolutamente “diversi”, alieni dal consumo e stupisce che nel ’72 si sia stati in grado di regalare un “YS” ancora oggi affascinante, ancora quasi sconvolgente. Improvvisazioni, fughe elettroniche, spigolose insieme alla voce, ritmi saltellanti sulle percussioni, ma soprattutto lo spazio del sintetizzatore, del mellotron e delle tastiere… gli esempi di musica rock italiana non sono molti, fra questi “Secondo Incontro”, sulla seconda facciata dell’album, dove la nostra vecchia musica viene ribaltata completamente ed è vero si sentono i respiri affannosi di tanta tradizione, rincorsa dal rock slegato, free ed impietoso del Balletto, mentre i testi – forse unico punto a svafore del gruppo – non riescono a legare bene l’amalgama, con parole rarefatte, spesso incomprensibili… affiora la pazzia crimsoniana, affiora in Leone lo stile alla Tippet, ne esce alla fine la voglia di distruggere e comunicare: quello che faranno gli Area dopo anni di ripensamento pop. Che ci siano stati i mezzi per sfuggire alla colonizzazione del sound angloamericano, ho l’impressione non si possano avere dubbi… se “Secondo Incontro”, non è tra le cose che le nostre radio libere, la Rai, la stampa hanno mai presentato come rivoluzionario, è solo il segno di una disinformazione, dell’essere arrivati incoscientemente dopo gli anni “caldi”, in cui il suono era ancora tale, creativo, vivace, pulsante, esplosivo.
Oltre a Leone, vanno ricordati allora i nomi di Lino Aiello, Gianchi Stringa, Vito Manzari, come protagonisti di questa danza folle e forse perversa, così cattiva nei confronti del nostro pop: ed al solo Gianni possiamo dedicare ancora qualche scampolo di tempo. Il suo primo album solo dal titolo “Vero”, è in uscita sul nostro mercato; ascoltato, l’impressione è ancora quella data dal vecchio Balletto, ma oggi forse la rivoluzione sonora che questo musicista propone è più mediata e matura, preparata anche a sostenere il suo ruolo nell’ambito del nostro panorama musicale, cosa di cui il coraggio, le cacofonie vibranti, le paurose intuizioni del Balletto di Bronzo, non volevano minimamente preoccuparsi.
Maurizio Baiata
Tratto dal mensile “Best” – 1977
Molto interessante Maurizio…le figure di copertina sono tratte da un dagherrotipo ?
A mio fratello piacciono i Litfiba soprattutto i primi Litfiba quelli come accade in questi casi piu` autentici, sperimentali dell`Eneide di Krypton per intenderci.
Pensi di pubblicare niente su un gruppo anni `80 un poco particolare che ascolto ogni tanto i Cocteau Twins ?
Marco71.
Magnifici anni “70”! pur essendo piccoletta hanno inesorabilmente influenzato i percorsi successivi della mia vita e del mio approccio alla musica…un back ground marcato e deciso; grazie Maurizio per avermi fatto conoscere questo gruppo che tanto mi ha ricordato, per le atmosfere e i suoni, il Banco del Mutuo soccorso e complimenti per la scansione accurata che ne fai raccontandone la loro musica.
Ramya