Per ricordare anni in cui nulla poteva fermarci. Buona Lettura!
Maurizio
Capitolo 4 – L’Epopea di Muzak
Da sempre amo la musica Rock e chi sia in grado di creare e superare la barriera del Suono. Sul finire degli anni Sessanta, il Piper Club di Via Tagliamento a Roma era il cuore delle molte nuove proposte in arrivo soprattutto dalla Gran Bretagna, raramente dagli USA. Fra i gruppi americani ricordo solo i californiani Byrds. Non dimentico invece la minigonna vertiginosa di Nicoletta Strambelli, in arte Patti Pravo sulle pedane del Piper e poi con i Cyan, già voce e arte sexy inarrivabile, la nostra musa di allora. E ricordo la sera in cui suonarono i Pink Floyd. Prima formazione, se non sbaglio con Syd Barrett, forse nascosto da qualche parte. Ufficialmente, se si scorrono le cronache dei tour europei dei Pink Floyd, la prima data italiana riportata è quella del 20 Giugno 1971 al Palasport di Roma. Io li vidi invece al Piper, nel Maggio 1968.
I Pink Floyd (Dave Gilmour, Roger Waters, Nick Mason, Rick Wright e Barrett) incarnavano la musica aliena, spaziale/psichedelica e si accompagnavano con il light show, fantasmagorico spettacolo di luci proiettato alle loro spalle in assonanza con i suoni. Aprirono con assurde note liquide che scivolavano via lievemente dagli amplificatori Marshall piazzati ai lati del palco. Feci un madornale errore. Non conoscevo il pezzo e, per ascoltare meglio, mi sistemai accanto al Marshall sulla destra. D’un tratto, il tiepido percorso di atmosfere sognanti si trasformò nella furente apertura di Astronomy Domine. Fu come se un’astronave fosse entrata nell’iperspazio con un fragore che anche gli arcangeli degli Amon Duul II avrebbero giudicato assordante. Così fu che la mia capacità uditiva tramite timpano sinistro subì un colpo tremendo. Mi allontanai di corsa, rifugiandomi dietro le file dei tavoli al centro della sala e ascoltai il resto del concerto con l’orecchio dolorante e la testa squassata dalle martellate di Interstellar Overdrive e dalle fughe galattiche di Set the Control for the Heart of the Sun. Il battesimo dell’aria, per un quasi diciottenne che sognava di fare il critico Rock.
Non pretendo di descrivere la storia del Rock in Italia per come ebbi il privilegio di viverla, piuttosto di riportarne solo alcuni episodi che, come in un’ideale colonna sonora, facciano comprendere come tutto sia collegato agli Alieni, o meglio alla Musica Aliena. Collegamento che esisteva, per me, fra i solchi dei dischi 33 giri di un tempo, prede oggi di avidi collezionisti di quel che chiamavano “il vile vinile” dopo l’avvento del digitale, concerti live e il mio pensiero sempre rivolto alle stelle.
Purtroppo, i Beatles, Jimi Hendrix e i Led Zeppelin non li ho mai visti dal vivo. Nel caso del quartetto di Liverpool, perché all’epoca della loro esibizione al teatro Adriano a Roma nel 1965, avevo 14 anni e non riuscii, con mio fratello Claudio allora dodicenne, a superare la resistenza e la diffidenza di mia madre. Pianti e strepiti, nulla da fare. Ci consolammo al cinema con lo stralunato film Help poco tempo dopo. Nel caso di Jimi, il figlio del Voodoo, perché non sapevo che sarebbe stato di passaggio nella capitale e avrebbe suonato al Titan Club, il 24 Maggio 1968. Me lo persi. Però, ho la testimonianza di Alberto Marozzi, principiante batterista e poi promoter discografico con la CBS italiana, di una notte di scorribanda nella capitale con Jimi, dopo una jam session in cui Alberto suonò la batteria con Jimi, che non aveva i musicisti della Experience con lui. Alberto possedeva una Fiat 500, a bordo della quale Jimi fece da passeggero e turista. Alberto, suo malgrado, si dovette disfare della vettura una ventina di anni dopo. L’aveva conservata come una reliquia, con le fotine di Jimi sul cruscotto come quelle di “Papà non correre” e dei santi protettori.
E mi mancano i Led Zeppelin, perché nella loro prima data al Vigorelli di Milano ci furono scontri violentissimi tra la polizia e i gruppi di autonomia con le molotov e il concerto fu interrotto nel fumo dei lacrimogeni. Il gruppo di Robert Plant decise di non suonare mai più in Italia. Con Santana al Palasport di Roma accadde lo stesso e della violenza assurda fui testimone diretto, nel 1977. Non era dunque più la Woodstock Generation di otto anni prima, inneggiante “Pace, Amore e Musica”. Erano gli anni di piombo. Fu la fine della grande stagione dei concerti Rock in Italia.
Ho egualmente avuto la fortuna di assistere a centinaia di concerti, anche in Inghilterra in quegli anni e negli Ottanta, a New York. Si pagava il biglietto, certo, non si dovevano abbattere le transenne e finire manganellati dai celerini o dai “compagni” dell’ultrasinistra solo perché vuoi assistere al concerto in santa pace. Poco ci mancò che succedesse anche il 6 Aprile 1973 con i King Crimson al Palasport, la tensione era alle stelle, ma andò tutto bene. Passai la prima parte del concerto nel retro palco con il pass da giornalista e la seconda in platea. E per la prima volta vidi qualcuno sbattere la testa sul pavimento spinto da irresistibili vibrazioni, non violente, ma di certo autolesioniste. Il Rock, soprattutto il Progressive che ti entra nelle vene e finisce per prenderti al cervello, fa anche questi effetti. Quella sera salutai il mio amico Maurizio Villanacci che il giorno dopo sarebbe partito per il servizio militare. Piangemmo abbracciandoci. Abbiamo fatto un lungo percorso di vita insieme, viaggiato per il mondo, vissuto i primi amori, ci siamo innamorati di Totò e dei suoi film distrutti dalla critica, visti agli spettacoli del pomeriggio e sapevano tutte le battute a memoria… “Cresce e matura il grano… passa la gioventù…” e ridevamo a crepapelle per ore, ricordandole. Eravamo molto uniti e con lui discutevo di dischi volanti. Era fra i pochi miei amici che non mi mandasse a quel paese per la mia ossessione per gli Extraterrestri. E guarda caso, come vedremo in seguito, fu con lui che nel 1985 ebbi il mio primo avvistamento UFO, a Coba, uno sperduto villaggio nel territorio di Quintana Roo, in Mexico.
Dunque, musica e politica negli anni Settanta. Un autore sconosciuto (sulla copertina non appariva alcun nome) scrisse un memorabile Libro Bianco sul Pop in Italia pubblicato dalla Arcana nel 1976. Vi si contavano le perdite, le vittorie e le sconfitte dei venti di rivoluzione che soffiarono su di noi allora. E lo lessi con un grande senso di tristezza, ormai offuscato dal tempo trascorso e dal cuore che mi si colma di emozione mentre scrivo ora. Nulla di più sbagliato, nello scrivere, partendo da un’idea che ti frulla nella testa e tu la trasformi in regola e concetto, almeno secondo me. L’unica soluzione è il flusso del pensiero, libero, inarrestabile, fruibile così per tutti.
Ricordo le discussioni nella redazione di Muzak, il più grande giornale “giovanile” di tutti i tempi (per me), fortemente politicizzato sul versante dell’ultra sinistra. Eravamo un “Collettivo di Redazione”, guidato da un grande direttore, Giaime Pintor (che saluto con il cuore, perché so che dall’alto mi guarda con un po’ di affetto) e io cercavo di coniugare il grosso dei miei pensieri con una dovuta azione “politica” in qualità di coordinatore della Redazione Rock, mentre Gino Castaldo era responsabile delle pagine di Jazz. Ero sempre in difficoltà. Alle riunioni di un formidabile team formato dalle menti di Giaime Pintor, Lidia Ravera, Fernanda Pivano, Giovanni Lombardo Radice, Danilo Moroni, Sandro Portelli, e con collaboratori del calibro di Goffredo Fofi, Mario Schifano, Corrado Sannucci, Marcello Sarno fra gli altri, sostenevo il mio punto: “Il Rock non si può ridurre in un concetto politico” e non potevo capire, allora, quanto fosse importante il Tempo. Ad esempio, per scrivere da anni ho bisogno degli occhiali da lettura, il computer con il suo schermo mi guarda, ma non distinguo le lettere, sono offuscate, allora metto gli occhiali, mi alzo, vado a cambiare il cd, torno e rimetto gli occhi sullo schermo e scrivo.
Dedicai la chiusura di un mio lungo articolo sul Rock Tedesco, pubblicato su Muzak (n. 10/11, Agosto/Settembre 1974), all’immenso Klaus Schulze: “Poco più che ventenne, organista, compositore, ex Ash Ra Tempel, ex Tangerine Dream, Schulze ha al suo attivo il massimo sforzo di esprimere sinfonicamente il rock futuribile, darne una visione spaziale piana e maestosa, offrirne il supremo anelito verso il cielo dell’armonia. In lui è tutta la schiuma dell’artista vero: è un io che si apre in esecuzioni elettroniche in assoluto. Tra generatori ed oscillatori di frequenza a riflettere un mondo poetico assurdo e pur sempre semplice, scene di vita irreale e luci di un amore divino per la natura, le cose e gli uomini. Le sue composizioni, raccolte in due album stupendi, ‘Irrlicht’ e ‘Cyborg’ sono il passaggio dalle tenebre alla luce, sono un tessuto sonoro che non ha eguali nell’intera storia della musica moderna, da Stravinsky in poi. Musicalmente, Schulze è solo perché in lui convergono le vene e il sangue della vera arte libera, la musica divaricata all’infinito, i timbri sparsi e l’un l’altro annientati vicendevolmente… di volta in volta le immagini si fanno aeree, limpide nella struttura e nelle conclusioni, estraniate in un io espressivo che ha il solo meraviglioso difetto di vivere nella più completa e intima solitudine…” Questo scrivevo di un genio, quello di Schulze.
Mentre ora cito i Popol Vuh, nelle parole del loro leader Florian Fricke:“La musica (del sistema), è usata come un velo che serve a coprire la ragione, per impedire di scegliere e di decidere… cogliamo la magia della libertà e della parola: ciò che vale per esse dovrebbe valere mille volte di più per la musica… lasciateci fare della musica, della musica che faccia del bene, che renda INTERIORE ciò che è ESTERIORE. E una volta pervenuti a tanto, restiamo uniti”.
Florian Fricke ci ha lasciati nel Dicembre 2001. Lo incontrai, con Rosi, voce del gruppo e sua compagna e Daniel Fichelscher, poliedrico polistrumentista e inarrestabile percussionista nella canonica di una chiesa sconsacrata di Colonia, in Germania. Fu una tappa di un folle tour in treno, partito da Milano e diretto a Monaco, credo nel 1973. Ero con Paul Alessandrini, grandissimo critico musicale francese e il giornalista milanese Daniele Caroli, con capelli che gli scendevano giù sino ai fianchi. Il viaggio organizzato dal produttore Rolf Ulrich Kaiser, ideatore e mastermind dell’etichetta discografica Die Kosmichen Kuriere, portava i “Corrieri Cosmici” in giro per l’Europa. Così, ci fermammo a vedere i Popol Vuh. Ora immaginate. Se Werner Herzog ha voluto le musiche dei Popol Vuh (il nome nasce dal testo sacro Maya) in quasi tutti i suoi magnifici film, da Fitzcarraldo ad Aguirre, da Nosferatu a L’enigma di Kaspar Hauser una ragione doveva pur esserci. Eccome se c’era. Adoro Florian, provo rispetto per lui. La sua musica, epica o etnica che fosse, resta una delle cose più belle per la quale il sentimento che mi lega alla Terra meriti di essere vissuto.
Le riunioni di redazione, a Muzak, il cui ufficio si trovava in Via Alessandria al centro di Roma, erano sempre piuttosto animate. Si discuteva di tutto e il timone del giornale comunque spettava al Direttore, Giaime Pintor. La cosa più paradossale era che la Musica Rock dei primi anni Settanta, una formidabile macchina da combattimento per liberare le menti di una generazione, quindi fatta di tutto e di niente – dal silenzio di Cage alle fantastiche tirate di Jimi Hendrix – sembrava dovesse libera e altresì libera avrebbe dovuto essere la critica. Invece no, quasi fossimo soloni alla Arrigo Polillo (il massimo critico Jazz italiano) o tromboni sfiatati, ci si chiedeva di rientrare nei canoni critici benvisti dalla sinistra partitica, ovvero da apparati che già lasciavano presagire ammiccamenti, compromessi e clientelismi con chi al potere ci stava già da anni. Soprattutto ci si doveva allineare alla riduttiva “critica marxista”. Altrimenti, si finiva tacciati di “fascismo intellettuale” dall’ultra sinistra che rifiutava in blocco tutto ciò che arrivava dagli invisi Stati Uniti d’America che mandavano a combattere in Vietnam i ragazzi della Woodstock Generation, o dalle frontiere del cosmo germaniche, a loro dire nipoti del Nazismo. Bel rebus. Io cercavo di starne fuori e restavo a guardare quegli intellettuali scontrarsi. Epico, il confronto dialettico fra Pintor e Gian-Emilio Simonetti, leader della Cramps, l’etichetta degli Area, a proposito di John Cage, la cui tematica del silenzio, ricordava Giaime, nasceva da Webern, compositore austriaco padre con Schoenberg della musica dodecafonica e seriale. Sembrerebbe ridicolo che tanta energia positiva potesse o dovesse infrangersi su bastioni culturali oggi ingialliti come partiture per fanfare militari, eppure questo accadeva.
In Ufologia, in Italia ho riscontrato situazioni assai simili. Il giornalismo musicale Rock nostrano non faceva fronte unito contro il nemico comune: la totale ignoranza del sistema politico dominante. Le nostre forze si disperdevano in mille rigagnoli di acque progressivamente avvelenate dal diffondersi programmato dell’eroina. L’eroina ha ucciso molti di noi. Dentro e fuori. In Ufologia, pur avendo ancora lo stesso nemico comune, l’ignoranza della massa e quella del potere costituito, è avvenuta la stessa cosa. Mi sono bastati i quasi 15 anni in cui ho avuto modo di frequentarne gli ambienti più altolocati, dispensatori di cultura fasulla, fatta di nozioni e di casistiche ben sotto controllo da chi di dovere. L’eroina dell’Ufologia è il veleno della calunnia.
Torniamo a Muzak e all’epica conclusione del suo sogno editoriale, politico ed editoriale. Nel 1976 pubblicammo un inserto staccabile contenente un questionario sulla sessualità rivolto ai giovani dei licei romani. E finimmo, tutto il Collettivo, sotto processo, perché di sesso a scuola non si poteva parlare, men che meno si poteva chiedere a ragazzi di 16 anni se facevano l’amore (e non la guerra), o se usavano contraccettivi, come aveva già dimostrato il processo a La Zanzara a Milano. Su segnalazione di una mamma molto apprensiva, il preside e il corpo insegnante del liceo Visconti ci denunciarono per corruzione di minorenni. Esperienza indimenticabile, il giorno del processo, celebrato nella grande palestra del Foro Italico, in seguito divenuta la famosa Aula Bunker dove si sono dibattuti i più importanti casi giudiziari italiani degli ultimi 30 anni. Tutti i componenti del Collettivo erano stati chiamati a testimoniare e a rispondere delle accuse. Il nostro difensore, il radicale Gianfranco Spadaccia, ci raccomandò di avvalerci della facoltà di non rispondere. Sfilammo sul banco degli imputati silenziosamente, uno a uno. Alla fine fu il turno di Fernanda Pivano, la scrittrice, mamma della Beat Generation in Italia. Percorse a passettini la sala, gremita di gente, senza neppure un brusio. Arrivò sin sotto il grande scranno del giudice. Si fermò. In mano aveva una rosa bianca che depose sul tavolo del giudice, con un sorriso innocente. Esplose un applauso da capogiro. Un’ondata di energia pura. Il giudice si alzò. Aveva una strana espressione nei suoi occhi. Disse: “L’udienza è tolta. Potete andare, tutti assolti. Il fatto non costituisce reato”.
Accadde però che dopo la sentenza, per almeno due mesi, fummo bloccati nella distribuzione e la rivista ne subì un contraccolpo irreparabile, nonostante le vendite fossero molto consistenti (circa 35.000 copie al mese). Inoltre, si vociferava che l’eccessivo impegno politico della testata fosse piuttosto scomodo per l’editore, che andava a gonfie vele con le sue pubblicazioni tecniche e di alta fedeltà. Chiudemmo i battenti. Sul mercato restò l’altro mensile, il milanese Gong, con talenti critici formidabili quali Riccardo Bertoncelli, Marco Fumagalli, Giacomo Pellicciotti. Ma la linea editoriale era troppo sofisticata e anche Gong sparì dalla circolazione.
Questo breve squarcio della nostra storia editoriale musicale, rappresentativa di un’informazione alternativa e di controcultura, mi riporta a un episodio che mi è rimasto nel cuore. La mia unica intervista, pianificata con la casa discografica Ricordi, a un mostro sacro della musica alternativa americana, Tim Buckley. L’intervista che non feci mai. Eppure ero a Milano, con un giornalista francese e un tedesco e credo persino una giapponese, in un salotto fuori dalla stanza d’albergo di Tim, in attesa di incontrarlo. Tim Buckley era un cantore leggendario di ballad assurde, dall’estensione vocale capace di sovracuti impensabili, un maestro della vibrazione ribelle scaturente dalla gola, uno spirito libero, nessuno in grado di esprimere meglio di lui l’urlo della più vera America di quegli anni. Doveva essere l’inizio del 1975. Tim, lo sapevamo, stava piuttosto male. Andava e veniva da stati di torpore derivato dall’assunzione continua di allucinogeni, anche se non è stato mai acclarato che facesse uso di droghe pesanti. La casa discografica italiana confidava in questa serie di colloqui con alcuni critici musicali selezionati per lanciarlo nel nostro Paese. Aspettavo. La porta della stanza del cantante si dischiuse e fece capolino la promoter americana che ci lanciò un’occhiata e poi invitò ad entrare Marco Fumagalli, giornalista di Gong (con lui mi sembra ci fosse Giacomo Pellicciotti). La stessa signora uscì pochi minuti dopo, confabulò con il manager della Ricordi, sul cui viso si dipinse un’espressione sconsolata e mi disse: “Maurizio, Tim ha detto che vuole parlare solo con Marco, mi dispiace, non puoi intervistarlo, devi rientrare a Roma”. Ero sbigottito, affranto, ci tenevo tantissimo a incontrare Tim Buckley, anche solo stringergli la mano per un attimo. Sapevo come stavano le cose.
Marco Fumagalli era malato di leucemia. Lottava contro il male con l’aiuto della macrobiotica, un regime molto stretto al quale si era sottoposto rigorosamente e lo aveva tenuto in vita sino ad allora. Non volle mai assumere farmaci. Chiesi di poter salutare Tim. Qualcuno aprì la porta quel tanto per farmi passare di mezzo metro. Lo vidi, era sul divano, lo sguardo un po’ assente sotto una cascata di riccioli neri. Mi fece un cenno di saluto con la mano al quale risposi e chiusi la porta. Tornai a Roma la sera stessa. Non scrissi il pezzo, ovviamente, ma sono certo che Fumagalli lo fece, anche se non lessi mai la sua intervista.
Il 29 Giugno 1975 Tim Buckley moriva a Dallas, Texas, stroncato da una mistura di alcool ed eroina che si era fatta – sembra – per rispondere a una sconsiderata sfida allo sballo totale con uno del suo entourage. Marco Fumagalli morì poco meno di un anno dopo. Cavalcarono le onde del suono insieme e sono felice di averli ricordati, perché il Tempo per loro non si è mai fermato.
Questo testo dei Dead Can Dance è dedicato a Tim e Marco.
“The Carnival Is Over”
Outside
The storm clouds gathering,
Moved silently along the dusty boulevard.
Where flowers turning crane their fragile necks
So they can in turn
Reach up and kiss the sky.
They are driven by a strange desire
Unseen by the human eye
Someone is calling.
I remember when you held my hand
In the park we would play when the circus came to town.
Look! Over here.
Outside
The circus gathering
Moved silently along the rainswept boulevard.
The procession moved on the shouting is over
The fabulous freaks are leaving town.
They are driven by a strange desire
Unseen by the human eye.
The carnival is over
We sat and watched
As the moon rose again
For the very first time.
“Il Carnevale è finito”
Lì fuori
Grappoli di nubi in tempesta,
Si muovevano silenziosamente lungo il polveroso viale.
Dove gli steli dei fiori di Strelitzia ruotano
il loro collo esile
Così a turno possono
Toccare e baciare il cielo.
Spinti da uno strano desiderio
Invisibile ad occhio umano
Qualcuno ora sta chiamando.
Ricordo come mi tenevi per mano
Per andare a giocare nel parco,
quando il circo arrivò in città.
Guarda! Da questa parte.
Lì fuori
I carrozzoni del circo
Si muovevano silenziosamente lungo il viale
battuto dalla pioggia.
La processione si allontanò e le grida cessarono
I mostri delle favole stanno lasciando la città.
Spinti da uno strano desiderio
Invisibile a occhio umano.
Il carnevale è finito
Ci sedemmo a guardare
La luna che sorse di nuovo
Per la prima volta.
Capitolo tratto dal libro “Gli alieni mi hanno salvato la vita” (Edizioni Verdechiaro, 2012)
Pubblicato per la prima volta su questo blog: 28 Agosto 2014
Maurizio Baiata
Non al Palasport, al Piper. Roma 1968. Un documento, ma molto discutibile montaggio eccetera.