Capitolo 11 – UFO e Intelligence
di Maurizio Baiata
Negli anni Novanta e nel primo decennio del 2000 ho avuto modo di incontrare e conoscere esponenti dell’intelligence statunitense che, nel corso della loro carriera militare, hanno avuto a che fare con la questione UFO e Alieni. Stranamente, invece, in Italia solo una volta ho avuto un contatto diretto con una persona operativa in contesti simili, ovvero negli apparati dei servizi segreti italiani. Non ne farò il nome per ovvie ragioni.
È stato lui a farsi avanti, parlandomene apertamente, dopo molti anni di conoscenza fra noi, anni nei quali non mi era mai balenato nel cervello che quell’amico potesse avere una doppia vita. Questo è il primo elemento che mi ha convinto immediatamente della sua sincerità. Se avesse voluto “imboccarmi” a suo tempo, vista la comune frequentazione di ambienti ufologici per due lustri, avrebbe potuto farlo tranquillamente. Evidentemente, in coscienza ha deciso altrimenti solo quando ha avuto la certezza di non correre alcun rischio e di avere di fronte una persona che non avrebbe tradito la sua fiducia. Non mi ha rivelato nulla di pertinente nello specifico delle attività dei servizi segreti italiani connesse al fenomeno UFO. Mi ha detto solo che se ne occupano strutture che non appaiono alla luce del giorno e che gli ufologi tenuti sotto controllo sono quelli più esposti e scomodi.
Questo è ampiamente noto. In realtà, comunque, li lasciano fare perché non rappresentano alcun pericolo, sono pesciolini in un acquario infestato dai piranhas. Il mio caso, peraltro, è un po’ sui generis, infatti sin dal 1995 ho diretto e pubblicato riviste sugli UFO e non solo, divenendo inviso soprattutto in quegli ambienti ufologici italiani che si limitano a raccogliere dati statistici, a studiare i palloni sonda, le lanterne cinesi e, se fosse vivo ancora Allen Hynek, i gas di palude e le anatre, godendo della propria eccellente e opportunistica mediocrità e, affermano, del credito istituzionale. Appena smuovi acque torbide in superficie, o sotto ce ne sono di più pure e quindi con un filtraggio completo le impurità spariscono e le acque tornano limpide, oppure è consigliabile non rimestare lo spesso strato di melma sul fondo. Spero la metafora sia chiara.
Di una cosa sono certo, peraltro. I servizi segreti italiani hanno ben altro di cui occuparsi, cose serie e gravi, anche perché il lavoro di monitoraggio dei ricercatori più coraggiosi, di depistaggio e di insabbiamento delle prove, di tacitamento dei testimoni, lo fanno altri, da anni. I servizi non hanno bisogno di infiltrare agenti speciali camuffati da seri studiosi ed entusiasti della materia all’interno delle organizzazioni ufologiche, i loro terminali sono già lì, da anni. I servizi non devono (e non interessa loro) agitarsi e palesare alcuna attenzione per la questione ufologica, altrimenti ne dimostrerebbero la fondatezza e questo dal “sistema” non è previsto, né concesso.
Inoltre, ci sono gli interessi economici. Il denaro, innanzitutto. I servizi segreti italiani, come quelli di altri Paesi, eccezion fatta per gli Stati Uniti, non credo abbiano ravvisato alcun vantaggio ottenibile dal gestire diversamente la questione UFO, perché essa, qui in Italia, soldi non ne produce. Così si tratta esclusivamente di controllare tutto a distanza, senza intervenire, perché nelle risse tra poveri ci si sporca le mani.
C’è stato però un momento, subito dopo l’esplosione del Santilli Footage nel triennio 1995-96-97, in cui l’Ufologia italiana non era da sottovalutare. Fra le riviste da me dirette con Roberto Pinotti e quelle che sarebbero uscite a strascico, il mercato editoriale in edicola si era posizionato oltre le 70.000 copie vendute mensilmente. Poco, si direbbe, rispetto alla sola Focus, la rivista che fa spettacolo della Scienza, ma quanto basta per fare rumore. Altri media, poi, si interessavano a noi e il bacino di utenza avrebbe potuto ulteriormente allargarsi. Lo stesso fenomeno si era registrato in Inghilterra. Insomma, poveri del tutto non eravamo e lo spirito volava alto.
I servizi questo lo sapevano e corsero ai ripari. O meglio, agli avvertimenti. Era norma, per la mia redazione, decidere collegialmente la copertina di ogni nuovo numero, in base alla rilevanza e attualità delle notizie ed efficacia e completezza dei servizi in “timone”. Nulla si improvvisava, anche se erano possibili e dietro l’angolo modifiche all’ultimo istante prima di andare in stampa, con una copertina del tutto diversa. Questo lo sanno molto bene i grafici che hanno lavorato con me, per quasi quindici anni di stress continui. Mantenevamo, peraltro, il massimo riserbo sui contenuti in preparazione, il che ci avrebbe evitato indesiderate fughe di notizie.
Un episodio sconcertante, che lo staff redazionale dovrebbe ricordare, accadde una sera, poche ore dopo la conclusione di una riunione, con relativa decisione della copertina di un numero pronto per andare in tipografia. Era il Luglio 1996. Si decise una cover story sulla misteriosa esplosione avvenuta a pochi minuti dal decollo del volo TWA 800, il Boeing 747 partito da New York City e diretto a Roma, dopo lo scalo previsto a Parigi. Duecentotrenta persone persero la vita, fra le quali otto Italiani. Sulle cause della tragedia in quei giorni di dibatteva aspramente a livello internazionale; erano state avanzate ipotesi alternative a quella ufficiale (un corto circuito), fra le quali la più interessante per noi restava quella del missile. Esistevano i tracciati radar e persino le immagini di un oggetto oblungo nella traiettoria del TWA 800. Discutemmo molto animatamente durante la riunione e si parlò di Ustica. C’erano delle singolari coincidenze fra i due incidenti, soprattutto una: gli elementi di indagine portavano a ritenere che entrambe gli aerei erano stati abbattuti. Cover story decisa, dunque.
In serata, attorno alle ore 22.00 ero ancora in redazione e ricevetti un’inquietante telefonata. Una voce maschile dall’altro capo del filo chiese: “Signor Baiata, Maurizio Baiata?”. Risposi affermativamente. La voce, leggermente roca e nasale, con accento meridionale, continuò: “Sappiamo cosa avete deciso per la prossima copertina. Le posso dire che siete sulla pista giusta.” Io risposi: “Mi scusi, lei sa chi sono io, ma io non so chi è lei. Questo colloquio per me non ha senso, visto che lei non rivela la sua identità”. E quello replicò: “Non importa. Noi la conosciamo molto bene, la seguiamo con molta simpatia, mi dia ascolto. Lei ha amici che non conosce, che fanno capo alla Commissione Stragi”. Il sangue mi si gelò nelle vene. Uno scherzo non sembrava affatto. Come facevano a sapere cosa avevamo discusso e deciso quello stesso pomeriggio?
Il mio interlocutore concluse: “Non si preoccupi, la contatteremo nuovamente, ci faremo vivi noi se sarà il caso” e attaccò. La notte presi sonno a fatica. Il giorno dopo riferii tutto ai redattori. Optammo per una copertina diversa. Sul TWA 800 pubblicammo un’inchiesta di Adriano Forgione sul numero 11 (Marzo 1997) di Notiziario UFO, otto pagine intitolate Long Island come Ustica?. Non siamo mai riusciti a scoprire la “talpa”, ma eravamo spiati, su questo non c’è alcun dubbio e, probabilmente, tenuti sotto osservazione con grande discrezione. Va detto anche che la nostra rivista eraa pubblicata da una consociata (e con il placet) dell’Istituto Poligrafico dello Stato, ma nel volgere di un anno e mezzo circa ci saremmo messi in proprio e, lentamente, le cose cambiarono, non in meglio. Questa però è un’altra storia, degna di essere esposta in un ipotetico Libro bianco sull’Editoria ufologica Italiana anni 1995-2000, ma non è nelle mie intenzioni, perché ho cercato di metterci una pietra sopra.
La svolta, per capire meglio quanto l’intera questione UFO fosse gestita in primis dai servizi di intelligence, non venne quindi dall’interno, da ambienti italiani, ma attraverso i contatti che stabilimmo a livello internazionale, soprattutto con gli Stati Uniti. Fu inevitabile aprirsi ad altri livelli, cercando di far arrivare in Italia alcune figure chiave del mondo dell’ufologia e degli apparati militari americani che si erano fatte avanti. Ci riuscimmo più volte grazie all’intraprendenza di Paola Harris, che già allora negli USA conosceva un po’ tutti. Il solo Clifford Stone, ex sergente dell’Esercito Americano, coinvolto nelle operazioni di UFO crash and retrieval su oggetti alieni precipitati e relativi equipaggi, è mancato all’appello. Clifford è ampiamente giustificato. Avrebbe voluto venire in Italia, ma è stato dissuaso con le maniere forti. Il figlio diciottenne è morto in un incidente motociclistico del tutto inesplicabile. Difficilmente Clifford lascia la sua amata Roswell.
Dunque, qualcuno potrebbe averle definite “gole profonde”, altri “rivelatori”, altri “informatori”, altri ancora “spifferatori” (dall’Inglese whistleblowers) ma va da sé che questi uomini non erano rimasti nell’ombra, perché di fatto, smessa la divisa militare, erano diventati ufologi. Innanzitutto l’ex colonnello dell’USAF Wendelle Stevens (scomparso recentemente, viveva a Tucson, Arizona, a un’ottantina di chilometri da Phoenix) e l’ex Sergente Maggiore dell’Esercito USA, Robert Dean, che vive ad Ahwatukee, nei dintorni di Phoenix. Sulla figura di Donald Ware, anch’egli colonnello della US Air Force, congedatosi nel 1983, non posso dire molto, in quanto pur avendolo incontrato diverse volte, la sua visione dell’interazione umano/aliena è astrusa e impraticabile in termini logici, almeno per me al momento. Diverso, invece, è quanto abbiamo appreso da Stevens e Dean, le cui informazioni hanno sempre delineato una logica e una coerente linea di condotta da parte degli apparati militari statunitensi e della NATO rispetto alla questione ufologica. Avremo modo di parlarne più avanti. Personalmente, non ho mai dubitato della loro buona fede e sincerità.
Chi dice che Bob Dean è stato al soldo di troppe bandiere dimentica una cosa fondamentale: Robert Dean è stato il primo militare americano ad aver vuotato il sacco, apertamente denunciando la “strategia del silenzio” sugli UFO del governo statunitense, con il concorso della NATO.
Ora però, ricollegandoci a quanto esposto nella prima parte di questo capitolo, devo accennare al dottor Michael Wolf. Un personaggio enigmatico, fuori dal comune e non certo fasullo – come sostengono i soloni dell’ufologia statunitense – con il quale ho sempre e soltanto conversato telefonicamente, stabilendo però un “rapporto speciale” che ci ha reso amici, anche se a distanza, sino a pochi giorni dalla sua morte, avvenuta il 16 Settembre del 2000. Una nota curiosa, a proposito delle registrazioni telefoniche su audiocassetta da me realizzate con il suo consenso durante le nostre conversazioni: nessuna è ascoltabile, sono smagnetizzate o non intelligibili. E pensare che tutta la mia collezione di interviste registrate a New York negli anni Ottanta è ancora in buona salute.
A proposito di Michael Wolf ci impegnammo a dismisura per pubblicare in Italia il suo libro The Catchers of Heaven (“Afferrando il Cielo”, Futuro, 1999) in una prima edizione ormai da tempo introvabile. Improbo fu soprattutto il lavoro di traduzione, per rendere in Italiano un’opera letteraria a mio avviso fondamentale e sulla quale finalmente sto lavorando, per una nuova edizione italiana che vedrà la luce, per questi stessi tipi, nel 2013.
Michael Wolf mi disse: “Vedi Maurizio, io sto ancora pagando per quello che ho fatto. A loro non è bastato aver eliminato mia moglie e mio figlio, in questi ultimi anni mi hanno lentamente e inesorabilmente avvelenato e ciò che mi resta da vivere lo devo trascorrere qui, senza poter uscire di casa, sotto il loro costante controllo. E, ironia della sorte, sono ancora al loro servizio. Ma è una scelta che ho dovuto fare tanti anni fa e sapevo quello che mi attendeva”. Loro chi? Glielo chiesi a più riprese – “La NSA (National Security Agency) è la mia appartenenza di facciata. Loro sono altri. Mi tengono in vita perché gli servo, come gli sono servito in passato”, mi rispose il dottor Wolf.
Quei “Loro” senza nome, volti e gradi, costituiscono un’organizzazione (da lui definita “Cabal”) inserita in una delle scatole cinesi che caratterizza la questione ufologica nel suo complesso? Oppure è indipendente e autonoma, che agisce senza tenere conto del need to know di altre strutture ad essa correlate? La risposta potrebbe essere la seconda, a ragionarci su dopo dieci anni. Lo desumiamo dalla storia stessa di Michael Wolf, dal fatto che due miei eccellenti collaboratori dell’epoca e amici di oggi, la giornalista italoamericana Paola Harris e Adriano Forgione, lo incontrarono nella sua casa di Hartford, in Connecticut, dove viveva “recluso” e ne hanno comprovato il curriculum, la genialità e la sincerità. Altri due comuni amici, Gabriella e Max Poggi (pilota, ex-comandante Alitalia) gli fecero visita e quando ancora oggi ne parliamo i loro occhi si fanno lucidi, per l’affetto che provano per Michael. Sfortunatamente, non ho avuto modo di incontrarlo di persona. Questo davvero mi è mancato e mi mancherà, sempre. Michael però ha scritto nel suo libro e lo ripeteva quasi ossessivamente che noi esseri umani viviamo nel “Per Sempre”, che non esiste separazione tra vita e morte e tra spazio e tempo, che il nostro involucro fisico, così fragile, è deputato solamente a contenere e custodire come un’armatura biologica la nostra Anima. E le anime sono sempre in contatto fra loro, anche se a volte non ce ne accorgiamo. So che queste parole ora escono attraverso un processo di comunicazione con Michael simile a quanto avviene in “scrittura automatica” ed è quello che lui vuole esprimere, io ne sono solo il tramite. Michael mi fornì le prove di cosa lui fosse in realtà, un potente remote viewer, soprattutto. La visione a distanza era parte del suo lavoro. La sua mente poteva viaggiare ovunque, localizzare un luogo e vederne i particolari, memorizzandoli.
Una spia psichica, certo. Abbiamo saputo di cosa si tratta, l’impiego e i compiti di queste persone speciali, a fini militari e non. Nulla di cui stupirsi.
Credere peraltro alla sua storia di “interfaccia” fra umani e alieni è un’altra cosa, che solo la lettura del suo libro, un labirinto quasi inestricabile, può contribuire a far comprendere. Stupefacente è però il resoconto che segue.
Nel 1999 la redazione delle riviste UFO Network e Dossier Alieni da me dirette si trovava in un villino sulla via Nomentana, fuori Roma, come si ricorderà dal primo capitolo.
Un giorno, un signore del cui nome posso rivelare solo le iniziali, L.T., mi contatta telefonicamente da Gli chiedo il motivo della sua telefonata. Mi risponde che è importante e decidiamo di incontrarci nel nostro ufficio. Arriva, sulla sessantina, leggermente claudicante, vestito elegantemente in blu. Ci sediamo al tavolo della sala riunioni. Uno di fronte l’altro. Giornalista, esperto mediorientalista, cultore di antiche tradizioni e fluente nelle lingue ebraica e araba, L.T. è un po’ affaticato, i toni e i modi sono da gran signore. Non si propone per una collaborazione, come avevo erroneamente pensato, bensì ha piacere di scambiare quattro chiacchiere.
Ed esordisce: “Lei sembra particolarmente interessato ai collegamenti esistenti fra la questione UFO e i servizi segreti. Anche io, per hobby, nutro questo interesse. Ma vede, frequentando ambienti della diplomazia internazionale, è logico”. “Ah sì, e perché sarebbe logico?” replicai. “Lasciamo perdere, piuttosto, lei con chi è in contatto?” – “Con ricercatori di mezzo mondo”, risposi, specificando che alcuni rapporti, necessariamente, venivano portati avanti solo attraverso gli incontri alle conferenze e che nella maggioranza dei casi quasi tutto avveniva mediante scambi telefonici, fax e posta elettronica. L.T. sembrava un po’ interdetto. “Fra un paio di giorni parto per Tel Aviv – mi disse – al seguito di una delegazione di governo, nel mio ruolo di interprete. Giro il mondo, lei invece se ne sta qui tranquillo”.
“Mica tanto”, replicai e dissi che anche a me le emozioni non mancavano. Ad esempio, la conoscenza di un personaggio come Michael Wolf, azzardai, era di per sé problematica. “Michael Wolf? Vuoi dire Kruvant, Michael Kruvant?”. Era passato da “lei” al “tu” in un istante e il tono non era più lo stesso. L.T. conosceva il vero cognome di Michael Wolf! E di Kruvant in Italia sapevano solo Paola Harris, Adriano Forgione e il sottoscritto. Con la Harris, in particolare, ci eravamo accordati per non divulgare il nome Kruvant, per espresso desiderio di Michael. Ora, non solo quell’uomo davanti a me ne era a conoscenza, ma era intenzionato a giocare a carte scoperte. Prova ne sia che mi confermò il ruolo di “agente speciale” di Michael Wolf Kruvant, in quanto la sua attività era nota ed era monitorata dalla struttura alla quale L.T. apparteneva, attiva in Italia e in altri Paesi, soprattutto l’Inghilterra, mi disse. Parte dell’addestramento di Michael Wolf e di L.T. aveva incluso la formazione di personale qualificato in operazioni di diplomazia internazionale. Ad entrambi, gli ordini pervenivano direttamente dal loro “direttore”, James Jesus Angleton. “Un nome top secret, da non rivelare” mi disse L.T. e aggiunse che Angleton era il “grande vecchio” dell’intelligence americana, leggendario e potentissimo.
Ora, Wolf mi aveva fatto lo stesso nome, sottolineando che ne parlava al telefono – consapevole che la chiamata fosse registrata – perché non aveva nulla da perdere ormai. Dal canto suo, L.T. non fece mistero dei suoi incontri con Michael Wolf, avvenuti soprattutto in occasione di corsi di aggiornamento e “briefing internazionali” ai quali avevano preso parte. “So che Michael sta molto male. Fagli i miei auguri”. Di quell’incontro mi resta questo. L’impressione di aver sfondato una porta aperta, di aver squarciato un velo inesistente. Ma come? Il giornalista interprete italiano con ascendenze ebraiche e amicizie palestinesi conosce Michael Wolf? Allora non è vero il meccanismo impermeabile dei compartimenti stagni tra i servizi segreti; non è vero, come diceva Philip Corso, che è meglio confidare un segreto al tuo nemico piuttosto che all’amico. Non è vero, soprattutto, che gli Italiani siano così fuori dal gioco.
Quel signore che tanto sapeva di Michael Wolf, cosa sapeva di me? Non lo saprò mai. Perché L.T. è morto da diversi anni. Niente necrologi, né “coccodrilli” di stampa. Niente notizie su di lui. Solo un annuncio funebre, da parte della famiglia, su Il Messaggero, il quotidiano della capitale che un giorno, sfogliandolo distrattamente, aveva colpito la mia attenzione.
Maurizio Baiata, 2 Novembre, 2013 – Tratto dal libro “Gli Alieni mi Hanno Salvato la Vita” (Verdechiaro Edizioni 2012)
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