Sono sempre stato affezionato all’articolo che a breve leggerete. Lo scrissi nel 1984, dedicandolo a Jaco Pastorius. Fu pubblicato cinque anni dopo, sul secondo numero del 1989 di “Storie”, una splendida meteora editoriale diretta da Gianluca Bassi.
Avevo vissuto sette anni in America, fra New York City ed Emerson, in New Jersey ed ero un giornalista che scriveva di musica Rock. Trasferivo le cronache sulle pagine dei giornali con i quali collaboravo e sulle onde di un programma della RAI, “Un passo avanti”, trasmesso da Radio3. Raccontavo ciò che vivevo, cercando di rendere tangibili le emozioni che provavo, grazie alla fortuna di trovarmi in quella Manhattan che ogni sera riservava sorprese, nuovi appuntamenti con piccole e grandi leggende del Rock.
Di gente strana ne conoscevo. E uscire la sera, immancabilmente con Maurizio Mancini e Kent Sandell, voleva dire andare all’avventura. Salivamo su una macchina scassata e si raggiungeva il posto, un locale, un pub, uno stadio, una grande sala concerti, la musica era ovunque. Spesso mi trovavo da solo sulla Subway ed era meno divertente e bisognava sempre tenere gli occhi aperti. Da Harlem in giù, ogni quartiere aveva i suoi punti caldi, un po’ decadenti le strade del West Village, più “in” quelle di Soho e Tribeca, ancora da evitare quelle della Lower East Side, dove abitavo. Il locale dove andai a sentire Jaco Pastorius era a Soho.
Su segnalazione dell’amico musicologo Danilo Jans, ho riletto l’articolo (http://helaberarda.blogspot.it/search?q=maurizio+baiata), poi ho cercato sul web e ho scoperto il pezzo nella sezione “Gli ultimi” del sito www.storie.it dove viene presentato con il titolo “L’ultima rissa di Jaco Pastorius – Non voleva smettere di suonare” che non corrisponde al titolo originale. Vedere un mio articolo scritto tanto tempo fa perpetuarsi negli archivi one-line di una testata che, ripresa dalla Leconte Editore, è considerata una delle più prestigiose pubblicazioni letterarie del mondo, è un grande onore. “Storie” ha diffusione internazione ed è ancora diretta da Gianluca Bassi, che saluto con affetto.
Desidero riproporvi l’articolo nel suo impaginato e titolazioni originali, pubblicato da “Storie” un paio di anni dopo la morte di Jaco, avvenuta a Fort Lauderdale, Florida, il 21 Settembre 1987.
Buona lettura
Maurizio Baiata, 27 Luglio 2012
L’Ultima Pena
Accade una notte. Gli eccessi speciali di un grande virtuoso del basso elettrico per il jazz moderno in una cronaca notturna che pare alludere, sinistra, al giorno in cui è morto. Non ci sono miti e neppure piccoli codardi; soltanto note che sopravvivono al proprio inventore e troppa gente che ha già dimenticato…
di Maurizio Baiata
Foto Francesco Garufi
New York. Giovedì 8 Novembre 1984
Soho, nel Village di Manhattan, il quartiere degli artisti e – oggi – sede di gallerie d’arte prestigiose, studi fotografici e ancora bar malfamati, riviste underground, spaccio d’alto bordo, sono le nove di sera a Green Street, fa freddo e le condizioni meteorologiche sono, per dirla alla newyorchese, “miserabili”, tant’è che l’aria si taglia a fettine di grigia saliva della metropoli. Le locandine del “5 & 10” annunciano a sorpresa, con una macchia di rosso sulla vetrina del pub-ristorante, un concerto di Jaco Pastorius e Michael Gerber.
In questi giorni a Manhattan si respira più jazz del solito. Sono di passaggio alcuni tra i più rappresentativi musicisti italiani del settore; Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea e Roberto Gatto, invitati dall’Istituto Italiano di Cultura al concerto di presentazione di Umbria Jazz e il grande Dizzy Gillespie ha avuto parole di elogio per loro… appuntamento alle nove con Giovanni Tommaso al “5 & 10”, Pastorius farà gli onori di casa, insomma siamo invitati proprio da lui. Mi colpisce la mancanza di cerimonie all’ingresso, non ci sono buttafuori in livrea punk, paillettes scintillanti, seni sgorganti e, immediatamente dentro, l’atmosfera è vagamente demodé, tutto verde e rosso, vellutini e abat-jour sulle tavole imbandite.
Ci sediamo. E inizia uno dei concerti più travolgenti che io abbia mai visto. Pastorius sale in scena col suo vecchio, sdrucito basso Fender dopo aver sistemato alle tastiere Michael Gerber che è cieco, e la sua musicalità cristallina sale subito alta, fine e quasi impercettibile mentre Jaco viene a salutarci; nello stringermi la mano vedo che è “fuori di testa” completamente, ha un sorriso stravolto sul bel volto incorniciato dai capelli che scendono sul collo. Gerber suona, i camerieri cominciano a servirci, tintinnano i bicchieri.
Alle 21.30 Giovanni Tommaso non si vede ancora. Campari, Miller e champagne spagnolo, Jaco tracanna un whisky doppio, accarezza le gambe di una bionda seduta all’angolo della tavola, le sussurra qualcosa, poi sale anche lui sul palco mentre Gerber non ha ancora terminato di inventare cristalli liquidi di suono, abbraccia il Fender, gira le spalle al pubblico (circa quaranta persone più o meno compitamente sedute) e va verso il piccolo amplificatore Marshall. Il locale non consente di più: duecento watt al massimo. Pastorius questo lo sa, i gestori del “5 & 10” lo hanno avvertito, non c’è insomma l’agibilità per un sound system fortemente elettrificato e bisogna mantenere il volume basso. Escono note timide da Fender.
Alle 22 il bicchiere di Jaco è appoggiato sull’ampli, dal quale escono ora furiose pennellate di rabbia, come traccianti nella notte, proiettili che illuminano la sala, la gente si scuote dal torpore dei drinks; il manager baffuto, piccolo, calvo ed antipatico arriva al nostro tavolo, prende da una parte un amico di Jaco e gli dice che così non può andare, che Pastorius deve abbassare il volume altrimenti gli fanno chiudere il locale. Siamo a tre metri dal palcoscenico, Jaco ondeggia sul basso, è già in un mondo di cui solo lui, o forse anche Gerber, ha le chiavi. Improvvisa attraverso sferzate di energia, adrenalina elettroacustica che gronda fuori dalla pelle, schizzando via dalle ossa… sussulti di vertiginose svisate.
Non si riesce a delineare nulla della sua musica, che sia anche una traccia dei Weather Report, di già noto cioè; il flusso non si interrompe e Pastorius sollecita lo strumento con violenza, ne forza le interiora, sviscera le venature di legno. Ore 22.15. Il manager arabo ha chiamato il fratello in sala. Insieme si avvicinano al palco, dove per un secondo Jaco sembra assorto in una preghiera, il Fender quasi muto. Gli chiedono di fermarsi, lui li osserva con aria infantilmente stupita, non smette di pizzicare le corde del basso poi, dopo aver roteato un attima la testa con aria da scolaretto, gli chiede “Cosa diavolo vuoi?” seguito da tre punti interrogativi. I due ex uomini del deserto uno in doppiopetto blu l’altro con una camicia verde mare e strass blu replicano “La devi smettere di suonare così. Questo posto ha il suo rispetto, i suoi clienti sono di prim’ordine, non possono sentire questa roba a questo volume”.
E Jaco, improvvisamente promette di fare il bravo ragazzo. Si riaccosta al Marshall e diminuisce il volume dell’ampli. Poi riattacca a suonare un pezzo di jazz alla Mingus, dolcissimo. Ore 22.25. È tutto inutile, il rumore, che fa parte del corpo elettrico è di nuovo qui, morsi furenti scuotono la carne e intervengono due colossi del locale che bloccano le braccia di Jaco da dietro, lo stringono, ma lui grande e grosso – chi aveva mai detto che la tossicodipendenza lo aveva ridotto a una larva? – si dimena e non molla il suo basso… siamo tutti in piedi e l’amplificatore continua a vomitare suoni selvaggi mentre i buttafuori riescono ad avere la meglio ed interrompere il Blues dell’artista.
Pastorius si lascia ammansire di nuovo, il gestore anche lui è sul palco e gli ha appena fatto cenno di avere una pistola sotto la giacca… Ore 22.45. Direttamente al cuore, Jaco suona il finale. Cinque minuti di energia purissima. Brilla sul suo capo la stella di Hendrix. Finisce qui.
Usciamo. Freddo boia. Luci a zero a Soho. Penso che Jaco è matto, che non dovrebbe fare così, che si sta autodistruggendo, che la sua vita è in gioco, che la droga lo divora dentro assieme al germe della libera armonia interiore. Penso che è troppo, che è ora di tornare a casa. Triste. È allora possibile credere all’ipotesi della morte di Jaco Pastorius come conseguenza di un durissimo pestaggio subìto in un locale di Fort Lauderdale, in Florida. Non sono stato ad indagare su quanto realmente sia successo. Ma ritengo plausibile la storia della rissa con il servizio d’ordine del club in cui il bassista si stava esibendo quella notte. Alcuni cronisti sono stati chiari: non voleva smettere di suonare, i gestori del locale sono intervenuti per obbligarlo ad andarsene, ma Jaco era ubriaco, ha risposto a male parole, gli sono saltati addosso in tanti, lo hanno picchiato. Jaco è morto alcuni giorni dopo, senza mai aver ripreso conoscenza. Possibile, ma schifoso. Possibile, ma umiliante per tutti. Per noi che lo amavamo come musicista inarrivabile, per gli amici che non erano lì – ma ne aveva? – per la gente buona, la brava gente comune che sì, in fondo Jaco voleva risvegliare dal sonno col suo rumore, ma alla quale certo non voleva far del male.
Brutta storia. Aveva trentacinque anni. Era considerato il più grande bassista degli anni ottanta, forse non da tutti, ma da moltissimi. Era stato con i Weather Report, dove aveva preso il posto lasciato vacante da Miroslav Vitous. Ma con Zawinul e Shorter era stato giusto il tempo per tirare poche note pulite al punto giusto. Poi era iniziato il suo calvario, di uomo e musicista e a New York, in una fredda e umida notte mentre le radio mandavano “I’m On Fire” di Bruce Springsteen… Jaco aveva sollevato il cuore verso l’alto, e aveva forse trovato pace.
Perfetto. Come avrei voluto vivere quegli anni fantastici. Eppure, molte volte, snobbati dalla parte di certa critica. La New Wave, la No Wave – Il Noise Rock – Sonic Youth e Swans, l’Hardcore punk à la Husker Du, The Replacements” etc. E poi gli ultimi vagiti di Miles Davis. Senza dimenticare il Thrash Metal dei Metallica. Anni fantastici.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Articolo molto significativo. E un racconto che contiene il gusto e l’atmosfera di un’America con un passato che ha ancora le radici in questo presente che insegue i fantasmi di un futuro senza sogni. Un’atmosfera che mi ricorda certi racconti Bukoskiani, e alcune parti della saga di Rocky Balboa. Il mito che rinasce sempre e più volte dalle ceneri di quell’araba fenice, che sempre presta il fianco al baratro del fallimento, per cogliere attimi di divinità in una vita che appare come veramente non nè, nei meandri di una psichicità che soffre miseramente le allucinazioni di un mondo che scintilla non di luce propria. E’ la solita riproposta di una fine, che a Menfis, trova il suo significato più simbolico. La profondità che ascolto in questo tuo articolo caro Maurizio, mi rende ancor più partecipe della tua ricerca esistenziale.
Molto vero, lì in mezzo sguazza allegra buona parte dei miei trascorsi quarant’anni.
Thanks, Danilo.