Un brano tratto dal capitolo due del mio libro “Gli Alieni mi hanno salvato la vita”. Lo dedico ai critici musicali, musicisti, speaker radiofonici e discografici… amici di un tempo sospeso nel Presente, quando insieme viaggiavamo sui dischi di vinile, prima di imbarcarci sui dischi volanti. Idealmente, lo intitolo “Manhattan Rock e Il Perigeo”.
Buona lettura.
Maurizio Baiata, 6 Giugno 2012
Miriadi di concerti al Bottom Line, al Peppermint Lounge, al CBGB e al Max’s Kansas City, o nei grandi palasport, il Nassau Coliseum e la Meadowlands Arena e le cronache poi le scrivevo a notte fonda e le inviavo via fax a Ciao 2001. Una sera andai al Meadowlands con Elio Donato, mio carissimo amico che aveva fatto lo stesso mio percorso, lasciando l’Italia nel 1981 e che allora scriveva per il settimanale Giovani.
Era la prima volta che vedevo gli AC/DC. L’apertura fu Hells Bells, le campane dell’inferno si elevarono lugubri nella totale oscurità.
Fu tutto talmente dirompente e da cuore in gola che alla fine Elio ed io ci dimenticammo di affrettarci verso il parcheggio esterno del mastodontico complesso sportivo di East Rutherford, dove giocavano le squadre di baseball. Del bus della casa discografica degli AC/DC che ci aveva portato sin lì non c’era traccia e sconsolati, senza sapere come tornare a Manhattan, restammo nel buio del New Jersey, una quarantina di miglia nella notte. Sinceramente oggi non ricordo come arrivammo a casa, forse chiedemmo un passaggio che un’anima pia ci diede, ma poco importa, avevo assistito a un concerto straordinario, per energia e potenza di puro metallo infuocato.
Manhattan era la mia città d’adozione. L’avevo raggiunta nel 1980 con l’intenzione di restarci definitivamente, dopo una prima visita di un mese l’anno prima. A Roma avevo circa cinquemila album (qualcuno, di recente, mi ha detto quindicimila). Moltissime interviste registrate su cassetta e libri di musica. Dirigevo l’edizione mensile italiana del quindicinale americano Rolling Stone, da sempre punto di riferimento di ciò che la musica Rock rappresenta nel mondo, ma leggevo molto di UFO, misteri e paranormale. Con la mia prima moglie Silvia avevamo deciso che New York sarebbe stata la meta giusta. Non sopportavo più il clima di veleni, odi sommersi e di rivalità fatte di coltellate alle spalle che permeava tutto l’ambiente romano della critica musicale Rock. E ci seguirono il nostro cane Dado e altri cinque amici tutti dell’ambiente musicale e creativo romano, stanchi di come andavano le cose in Italia e in cerca di un futuro negli USA.
I primi sei mesi furono molto difficili. Per rendere l’idea, non avendo soldi per comprare i letti, la sera tardi giravamo nelle strade in cerca di pallets, le pedane di legno su cui adagiammo i materassi acquistati dai rigattieri cinesi di Canal Street ai confini di quella che un tempo era stata Little Italy. Vivevamo tutti insieme in un grande loft al numero 81 di Murray Street, nel quartiere di Tribeca. Le nostre finestre davano su un mega edificio che ora non esiste più, una delle torri del World Trade Center.
Ritrovai due amici che si erano già stabiliti a New York. Li avevo conosciuti nei primi anni Settanta quando lavoravo alla RCA, la più grande casa discografica italiana, una multinazionale che aveva gli stabilimenti sulla Via Tiburtina, all’uscita del Raccordo Anulare. Io ero nel settore Marketing International, ma mi incaricarono di seguire due tour del Perigeo, la band jazz-rock-avantgarde capitanata dal contrabbassista Giovanni Tommaso, con Franco D’Andrea alle tastiere, Bruno Biriaco alla batteria, Claudio Fasoli al sax e Tony Sidney alla chitarra elettrica. Le atmosfere che il Perigeo creava, in un momento in cui il Progressive Rock Italiano aveva come alfieri politicizzati gli Area di Demetrio Stratos, eguagliavano se non sorpassavano gli americani Weather Report. Girammo tutta l’Italia, isole comprese e fu un’esperienza per me indimenticabile. Il gruppo si spostava ogni giorno a bordo di un mini pullman e gli strumenti viaggiavano su un altro veicolo guidato dai roadies, i ragazzi del settore tecnico, che facevano la vita più dura. Con loro mi trovavo benissimo. Tric era alla consolle, Kent Sandell (oggi ingegnere alla Lucas Aerospace) era il tecnico del palco, Maurizio Mancini fungeva da percussionista e tuttofare. Diventammo amici e con Kent e Maurizio a New York anni dopo avrei diviso tutto, la casa, le ansie e le speranze di allora.
Maurizio Mancini aveva la naturale predisposizione alla conquista dell’altrui simpatia. Aveva contatti con molti musicisti di stanza a New York, con alcuni dei quali fummo sul punto di avviare delle produzioni: Afrika Bambaata, Billy Idol, Zodio Doze, Lounge Lizards, Michael Shrieve, il grande batterista dei Santana che a 17 anni incantò Woodstock con uno dei più memorabili assolo di tutti i tempi. Non riuscimmo a lavorare con nessuno di loro e mi rammarico soprattutto per Billy Idol, che di lì a breve sarebbe diventato un’icona del Rock, ma in fondo a noi importava la musica, non fare i soldi con i musicisti. Non mi ci vedevo come impresario che litiga ogni sera con i manager dei locali o delle major discografiche. Restavo dall’altra parte. Quella creativa.
Basti il ricordo di una sera nella quale ebbi la fortuna di incontrare Jaco Pastorius e vederlo in un piccolo locale del West Village squassare il Marshall con le corde del suo basso a mille fu come passare nella Quarta Dimensione per la scorciatoia della follia. Di lì a poco…
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