Lo scorso sei Gennaio il quotidiano “La Repubblica” pubblicava un articolo, a firma di Gino Castaldo, intitolato Il grande silenzio del rock – “Questa volta è finita davvero”.
Il pezzo ha fatto riflettere e discutere sul web, ma immagino abbia colpito anche molti lettori del quotidiano, generando scompiglio nelle file dei cultori e appassionati di Rock della vecchia e nuova generazione. Nati negli anni ’50 o che oggi abbiano ha meno di 30 anni, tutti si saranno intristiti a questo “Rock De Profundis” intonato da Castaldo che, fra i più noti e preparati critici musicali italiani, ha lamentato il fatto che la musica Rock oggi ha perso contatto con le realtà sociali e politiche in quanto non è quasi mai presente nelle classifiche discografiche quindi non incide, almeno matematicamente, sul vissuto dei giovani di oggi e non ne riflette la mente e il cuore.
Il pezzo è leggibile qui: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/01/06/news/silenzio_rock-27658928/
Da ex critico musicale Rock, coetaneo e amico di Gino Castaldo da circa 40 anni, vorrei esprimere un commento. Negli anni ’50, quando il R&R nacque e prese a scorrere nelle vene dei ragazzini bianchi di allora, ciò che dominava nelle classifiche discografiche statunitensi era il mainstream, inteso come musiche d’orchestra e singers confidenziali ancorati alla voglia di lasciarsi alle spalle le tragedie e di danzare ancora sotto la pioggia. Che le classifiche di oggi non vedano presenze Rock ai vertici e neppure nelle retrovie non sorprende, avveniva infatti anche negli anni Cinquanta, quando miriadi di “Teen age Idols” imperversavano, data la leggerezza richiesta in quel momento. Però nei primi anni ’60 con Beatles e Rolling Stones la musica si lasciò travolgere dai venti del cambiamento e gli Animals di Eric Burdon lo dissero chiaro. Affinché si definisse la sua forza rivoluzionaria si dovette attendere ancora qualche anno e inarrestabili venti di rivoluzione scaturirono dall’afflato pacifista del Flower Power e dai movimenti dei neri.
Ora. Ricordo la nostra nascita come critici musicali appena usciti dallo stesso liceo romano. Gino amava il Jazz e al Rock diede allora, come sembra faccia ancora oggi, maggiore importanza nel suo costrutto culturale piuttosto che all’essere espressione di una generazione che decide liberamente di confrontarsi con la società. Come critico Jazz, dell’universo musicale dei neri Castaldo coglieva ogni attimo e la più minuta sfumatura, ma non ricordo che si esaltasse alle piroette di Townshend, o lo emozionassero le lancinanti urla di Jimi Hendrix che per me rappresentavano in musica una lotta durissima contro il sistema.
Gino si nutriva di Coltrane, Davis e Mingus, giustissimo, in quanto non solo maestri indiscussi del loro strumento, ma anche padri dell’espressione compatta della negritudine, a partire dal Be-Bop. Di converso, rispetto alle sporcature del Rock, Castaldo era un purista. Quindi, secondo me, dovette accettare a mezza bocca le commistioni dei Weather Report o persino degli italiani Perigeo. Il Jazz era sì di spessore ben diverso, sul piano della giustificazione storico/politica dell’espressione musicale rispetto ai suoni confusamente ribelli del Rock, nonostante fosse divenuto adulto con Woodstock. Non per questo, però il Rock doveva morire o sarebbe deceduto lì, né ad Altamont, né al Vigorelli o al Palasport dei manganelli e dei lacrimogeni.
Le distanze, tra il Rock e la musica di consumo sono sempre state abissali. Nulla significa il fatto che il Rock debba vedersi surclassato in cima alle charts da musichette insulse e per palati molli. Non credo che i Led Zeppelin o gli U2 se ne siano mai curati. Altresì non se curava chi li ascoltava e acquistava i loro dischi.
Nel suo complesso, il ragionamento dell’amico Gino mi sconcerta. Come non ravvisare la positività dei movimenti underground che esistono da sempre e oggi sono vivi e vegeti, anziché esprimere cordoglio davanti all’appiattimento cerebrale imposto dalla Pop Music? Secondo Castaldo, “la protesta e le classifiche… sono strettamente connesse”. Come se le une cannibalizzassero le altre, il che non è vero. Per la semplice ragione che se un album realmente Rock raggiunge i vertici delle classifiche lo deve alla risposta emozionale che provoca nelle persone, al tam tam delle radio a rotation inscatolate e, ancora, ai mezzi di comunicazione che offrono musica e immagini e che il sistema non può bloccare, come Youtube.
Il Rock è lo spazio in cui si confrontano le avanguardie, non la vetrina che offre paccottiglia pre confezionata o madonnine sotto vetro. Potrei citare decine di esempi di gruppi che esplorano nuovi territori e che sono in grado di far pensare, di interpretare gli umori dei giovani, di farli danzare dentro e fuori del loro involucro fisico, toccandone l’anima. Cito solo due estremi che arrivano dall’Islanda: gli eterei e cosmici post-crimsoniani Sigur Ros, che nel mondo conoscono tutti e i travolgenti e ancora semi-sconosciuti Dead Skeletons. L’Islanda è il Paese che ha superato una gravissima crisi finanziaria perché il suo popolo si è opposto alle regole delle oligarchie mondiali, riscrivendo persino la propria Costituzione. Forse, dunque, libertà e creatività possono coniugarsi bene in nome di una vera democrazia.
Il miracolo democratico del Rock avviene in qualunque piccolo studio musicale dove ci si riunisca, partendo dai riffs di una volta e magari scarnificandoli all’inverosimile quando si scava dentro di sé e si scopre che quello che vuoi dire con le note e le distorsioni non può certamente essere lineare e accompagnare gli ascoltatori come una passeggiata di salute. Forse i White Stripes volevano ottenere questo? Quando mai una musica rivoluzionaria diventa di consumo? Lo diventa solo se chi la crea decide di farlo e di morire dentro. Avvizzendosi.
Oggi, innumerevoli sono quei gruppi che, una volta siano riusciti a produrre un loro Cd, vanno in giro nel loro Paese e altrove a suonare e insieme ai roadies (se ne hanno) spuntano sempre a ogni concerto i banchetti dove il cd è in vendita. Se vuoi, te li autografano. E ora, con il vinile che sembra rinascere, è anche più facile firmare il proprio lavoro. Non è forse questo un segno positivo dei tempi che stiamo vivendo? E non si pone forse come espressione di un linguaggio e di un metodo che la nuova generazione di musicisti ha sentito dentro di sé, per sopravvivere all’insulsaggine dei nostri tempi? Ritenere che il Rock, perché possa rappresentare qualcosa debba essere sovrapponibile al livello commerciale e persino creativo delle musiche da consumare non mi sembra in sintonia con la sua anima immortale.
Maurizio Baiata, 18 Gennaio 2012
Maurizio, sei grande! Un gran pezzo ! Bravo…..la classe non è acqua !
Massimo, grazie! Un bellissimo complimento and as usual: ZAPPA RULES!
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Sono perfettamente d’accordo con l’analisi di Baiata…resto sbigottito,pure io,quando leggo certi necrologi da parte di persone a cui del rock (o dei suoi derivati,che sono molti) sembra non fregare nulla o quasi.
A mio parere il rock non muore e neppure rinasce,semplicemente cambia pelle ogni volta che nella società in cui vive,succede qualcosa di rilevante : il punto massimo di questa evoluzione è fissato intorno agli anni 60,poichè quella è stata l’era dei grandi mutamenti e delle “coscienze allargate” (sui risultati non mi soffermerei,ci vorrebbero migliaia di siti) ma se tutto ciò,oggi, cammina meno velocemente,non significa che sia morto.
Si muore quando si smette di sognare,se ancora oggi siamo qui a parlarne vuol dire che le molteplici strade sono ancora aperte,per percorrerle ci vuole più coraggio di ieri (ma in Islanda,come si diceva,ce l’hanno fatta).
Gent.mo dott. Baiata..
Ho letto il suo articolo e poi quello di Castaldo.. entrambi condivisibili anche se su posizioni diverse.. Brevemente vorrei suggerire delle prospettive di ricerca, certamente non esaustive. Sarò breve chè l’argomento altrimenti è infinito..
Innanzitutto, in risposta al dott. Castaldo mi verrebbe da dire: lo sa chi ha ucciso il rock?? lo spot proprio all’inizio del suo articolo sul web.. Parte tutto da quà, da una società che ha smesso di sognare e sa far solo di conto.
La mercificazione senza più fatasia, ecco cosa voglio dire. Il rnr è sempre stato “anche” merce, ma veicolata attraverso valori ed ideologie che ne han fatto poi la storia e la leggenda.. Oggi invece è puro abito, costume, prodotto, appeal.. Ma dove non c’è sogno non c’è appeal!!
E poi il declino dell’industria musicale con tutto il suo indotto che oggi pressocchè non esiste più. Dagli arrangiatori ai fonici di studio, ai grafici delle coperine e della comunicazione, fino alle agenzie etc. Quante professionalità muoveva l’industria discografica e che oggi si sono perse in questa corsa verso il nulla?? E dove non ci son soldi non ci sono professionalità.
Solo un esempio: quanto è costato il make di “Dark side of the moon”?? E quanto poi ha reso!! O, ancora, quante professionalità e competenze muovevano i Beatles?? E uanti investimenti..
Per ultimo poi, si è passati dal vinile e al cd (prodotti fisici) fino all’immateriale dell’mp3. Certo maggiore democrazia, ma anche maggiore confusione ed annullamento dei profitti soprattutto a discapito delle etichette indipendenti (che una volta erano il banco di prova delle majors ed oggi non esistono pressocchè più..) Oggi è una palude ed una jungla di prodotti fatti in casa che sembrano suonare veri ma son fatti nella camera da letto (una volta eran le cantine e almeno c’era il brivido della discesa..)
E poi il pubblico è cambiato: oggi non ci sono più differenze di classe e ideologia, siam tutti omologati: comunisti fascisti neonazi iperconsumisti.. tutti con l’iphon et simila.. Tutti nel gran supermercato globale.. Dunque?? Abbiamo perso tutti. E come in ogni storia, aspettiamo solo i barbari che vengano a salvarci e a distruggere questo mondo post-finale.
O forse sarà un alieno che verrà.. sarà lo “Ziggy stardust” del futuro?? Lo speriamo tutti: “We are waiting for you Ziggy, we are waiting for you..” 😉
ps. chi scrive si è occupato per anni di musica e rnr a vari livelli “sul campo” e “sul palco”. E di comunicazione e advertising. Oggi risiede da “esule” in quel di Berlino, città feconda di storia e modernità, dove lavora per un media tv..
A voi un caro ringraziamento per la gentile attenzione, e ritengo la questione solo aperta e non certo mai conclusa.. A voi un caloro aufwiedersehen b bye 😉
carlo p.
Le etichette indipendenti esistono tuttora,meno che negli anni 80,ma in rete circolano molto più velocemente e spesso in modo più capillare…i problemi,piuttosto,sono la distribuzione nei canali tradizionali come i negozi,ma soprattutto la promozione nei concerti LIVE,poichè i locali si sono ridotti notevolmente ed i pochi che esistono non garantiscono nemmeno le spese (per chi suona,viceversa,quelle sono cresciute).
Quindi sulla mancanza di una vera “industria” sono pienamente d’accordo,non lo sono invece nel decretare la morte di una cultura,nel senso che di morte si può parlare solo in assenza di movimento e di vita (la dove significa creatività e calore)…il “rock” sopravvive se cerca di essere meno omologato alle mode e se si apre ad altre “contaminazioni”,che non debbono necessariamente appartenere ad uno schema,nè tantomeno portarsi appresso un marchio politico/ideologico : la psichedelia continua ad essere la contamiazione per eccellenza,quando non si limita a rifare il verso ad un glorioso passato,ma sa interpretare gli umori del presente…al di là di questo,per adesso,non si vedono molte alternative,ma non è detto che non saltino fuori.
Con l’ottimismo spesso ci si illude,ma con il pessimismo di sicuro non si cresce.