Parlare della Musica dei Popol Vuh vuol dire calarsi nell’epica della Trasformazione. Ne scrissi per la prima volta nel 1972, preceduto dal grande critico musicale tedesco Rolf Ulrich Kaiser, fondatore del movimento dei Corrieri Cosmici e delle tre etichette Ohr, Pilz e Kosmische Kuriere, dalle quali sarebbero scaturiti i flussi Floh de Cologne, Limbus, Embryo, Tangerine Dream, Guru Guru, Birth Control, Ash Ra Tempel e il genio assoluto, Klaus Schulze. Questo mio articolo, pubblicato dal settimanale Ciao 2001, appare in Italiano nella sezione bibliografica del sito tedesco http://www.popolvuh.nl/ a cura di Dolf Mulder. Un sito splendido, in lingua Inglese, ricettacolo di preziose informazioni su una formazione che ha lasciato il segno nella storia dell’avanguardia tedesca e il cui leader, Florian Fricke, scomparso il 29 Dicembre 2001, ebbi la fortuna di incontrare e ascoltare dal vivo in un incredibile concerto in una chiesa sconsacrata di Stoccarda.
Popol Vuh – La Cosmogonia dei Figli della Musica
Alla base di un particolare tipo di ricerca sonora c’è lo smantellamento delle sovrastrutture armoniche. Con i Popol Vuh si tende verso l’assoluto e la stessa musica, con la sua penetrazione nel corpo, viene concepita come corpo, mente, Dio. Il preziosismo tecnico viene smantellato per lasciare il posto all’essenza della musica: di qui l’inimmaginabile forza del loro sound.
Il tentare di aprirsi verso una musica assolutamente libera, trasparente, non condizionata dai motivi commerciali è nelle intenzioni dei musicisti considerati all’avanguardia, il fine ultimo di quel tipo di ricerca che non si ferma alle limitazioni armoniche, ma scava alle fondamenta psicologiche e sociali di una musica intesa come proiezione artistica dell’essenza stessa dell’uomo. Assistiamo così in campo jazzistico, rockistico ma solo in qualche caso e in quello “elettronico” per eccellenza, all’espandersi del cosmo individuale di ogni gruppo o artista, e al fluire contemporaneo e progressivo verso forme antischematiche, metafisiche, essenziali, spesso di difficile comprensione. In questo contesto, seppure verso i confini di un orizzonte vastissimo, abbiamo parlato più volte e ci siamo compiaciuti nel trovare i sintomi di un progresso e di una ricettività eccezionali sopratutto nei gruppi tedeschi. Cominciamo oggi un esame accurato di alcuni di essi, quando i vari Amon Duul II, Can ed Embryo, seppure tra discordie di pareri e perplessità varie, hanno dato uno scossone formidabile all’establishment musicale europeo di impronta marcatamente inglese.
Parliamo dunque dei Popol Vuh e iniziamo purtroppo con delle note dolenti: le loro opere sono di difficilissima reperibilità e poche sono le speranze di portare a un pubblico sufficientemente vasto una musica che non esitiamo a definire straordinaria. Il nome del gruppo prende forma dall’unione di due termini apparentemente incomprensibili: il primo, “Popol” viene ripreso dal titolo di un antico libro sacro degli indiani Quiche; il secondo, “Vuh”, è il nome di certe deità, nonché una parola magica che significa “ubertosità, luce, sole, ghianda infuocata”. Ecco, per bocca degli stessi interessati, maggiori chiarimenti:
“ … in questo nostro paese, la Germania, abbiamo un’antica tradizione creativa, il cui fondamento si può ritrovare in una sorta di predisposizione mistica verso l’Assoluto. Dietro di noi abbiamo uno stuolo di poeti, di filosofi, di moltissima e splendida musica, i quali tutti rappresentano, in definitiva, il fascismo nella sua essenza più genuina. Ma attualmente possiamo dire di vivere in grande libertà, viviamo soprattutto criticamente rispetto all’euforia di massa, e alle distruzioni di massa. Noi lavoriamo a una musica che è in se stessa così libera da consentire a chi l’ascolta di abbandonarsi alle proprie fantasie. Noi cerchiamo e troviamo in antichi libri, che trattano dell’unità materiale e immateriale del cosmo umano, la struttura di base, armonica e sonora, che reca in sé la forza della trasformazione. Così noi stessi sperimentiamo la musica come una testimonianza e questo messaggio lo trasmettiamo agli altri…”
Simili esplicazioni, come facilmente si può notare, travalicano grandemente il fattore strettamente musicale, per arrivare a profondità sociali, religiose, culturali che lasciano di stucco. E accanto ad esse vive un mondo di suoni e di sensazioni davvero inarrivabile, indicibile nella sua maestosità, nella sua bellezza cosmica. I Popol Vuh colpiscono la nostra immaginazione, la nostra fantasia con raffiche fatte di esotismo e di esoterismo timbrico; raggiungono il segno della nostra essenza, affascinano sensi e nervi, catturano la nostra attenzione e la nostra mente, per trasportarci in paesaggi lontani, in mondi diversi, in quell’iperuranio dove il nostro inconscio, la parte più intima e nascosta di noi stessi, trova la chiarezza e tende a risplendere.
L’ascolto di “In den Garten Pharaos”, secondo album del gruppo, è semplicemente scioccante. Ma preferiamo lasciare a Florian Fricke (Moog, Organo, piano e tastiere varie) il compito di introdurci più sapientemente alla loro musica.
Scrive Fricke:
Intendiamo la Parola, il Canto e il Suono come riscoperta di Dio, come Forza Risanatrice, come Corruzione e come Violenza. Tengo a spiegare ognuno di questi caratteri programmatici:
1 – PAROLA, CANTO E SUONO COME RISCOPERTA DI DIO
“Nell’architettura dei tre principi della cosmogonia tibetana, il cui gradino più alto è l’ottavo, con alla base quello zero che viene considerato come raffigurazione della pre-Creazione, del Non-Nato, il senso dell’ottavo gradino, quello del Principe Spirituale. Ad esso, solitamente irraggiungibile per l‘uomo, si perviene con l’aiuto della Parola, del Canto, o con la dedizione al Suono Interiore, alla parola stessa di Dio, detta “OM”. La Parola raffigura l’aspetto della Potenza; il Canto l’aspetto dell’Amore; la dedizione al Suono Interiore costituisce la via che conduce direttamente a Dio. L’orecchio è un organo femminile; nelle orecchie dimorano le dee delle direzioni spaziali, le padrone dell’elemento spazio che nel muscolo dell’orecchio è il grembo materno di questo suono che irrompe e subito “colora lo spirito”, come dice un antico proverbio indiano. E così Parola e Canto influiscono in maniera determinante sull’equilibrio dell’uomo e, ordinati secondo un rituale religioso, Parola, Canto e Suono contribuiscono nel modo più perfetto ad avvicinare l’uomo a Dio”.
A questo punto viene spontaneo domandarsi se quella dei Popol Vuh, musica concepita e strutturata su basi simili, abbia effettivamente del pazzesco o no. A noi personalmente appare come un tentativo straordinario, se considerato sia alla luce delle sue cause prime, che non anche per i suoi effetti; quelli musicali sono ineguagliabili e, quel che più conta, a nostro avviso, facilmente recepibili da chi sia in possesso di un minimo di cultura musicale e di sensibilità personale. Riesce facile individuare una matrice davvero importante nel sound espresso dal gruppo, direttamente in correlazione con quanto espresso in apertura di articolo cioè la possibilità estrema di vivere di ricorsi storici che, in altra sede, sarebbe impossibile ottenere. Questi ritorni si esplicano soprattutto nella vicinanza con forme classiche, prettamente germaniche, origini che la nostra civiltà, oggi, ritrova in anni quali il ‘600 e il ‘700, forse i migliori della storia musicale tedesca, per arrivare, poi, al rifiuto dello schematismo e delle regole canoniche che nacque con l‘introduzione della sinfonia (Haydn, Beethoven, Mozart). Come allora, anche oggi assistiamo a un revival del gusto per le espressioni timbriche e non melodiche, rivoluzionarie se vogliamo, ma che in pratica tendono verso proposizioni violente, ossessive, evocanti determinate sensazioni. Quello che avviene in pratica è lo smantellamento della costruzione tecnica per arrivare all’essenza della musica: oggi come allora, tendere verso l’assoluto. Ma il riallacciarsi anche e soprattutto a teorie di origine orientale, costituisce un altro punto fermo della costruzione armonica del Popol Vuh. Vediamolo insieme.
“… Non è più un’utopia credere che il rapporto esistente fra l’altezza dei suoni, gli intervalli, la struttura dei suoni, il ritmo e il cosmo da una parte, e l’uomo dall’altra, possano venire strutturalmente determinati entro i prossimi dieci-venti anni. L’India, invece, già da molti secoli, possiede un enorme patrimonio di analogie fra musica e natura, musica e corpo umano, musica e sistema planetario. L’India possiede, ad esempio, la chiave drammaturgica del mistero della penetrazione della musica nel corpo. Se noi dovessimo riuscire, oltre che conoscere, anche a vivere intimamente le nuove aperture musicali che ci proponiamo di scoprire e sulle quali, invece, il mondo orientale possiede un’enorme cultura per noi inarrivabile, allora noi saremmo di nuovo in grado di servirci della musica come di un potente mezzo terapeutico.
Vorremmo qui far notare come la costruzione armonica di origine orientale abbia precise rispondenze con caratteri prettamente fisici e infatti vediamo come sono divisi i toni fondamentali: il primo, essenziale, trova una sua corrispondenza nell’anima; il secondo, nella testa; il terzo, nel braccio; il quarto, nel petto; il quinto, nel collo; il sesto nei fianchi; il settimo, nei piedi. Una spiegazione forse più logica è la seguente; se mentre si suona si cerca di rapportare al suono emesso la parte del corpo ad esso corrispondente, si perviene allora a una totale identità fisica con il suono, imprimendo a quest’ultimo una grande forza di persuasione: ancora più in pratica (e maggiormente in questo sta il fascino dei Popol Vuh), si può raggiungere, attraverso linee musicali, la massima espressione del proprio io interiore. La musica dei Popol Vuh nasconde un’inimmaginabile forza, oppure, nel caso negativo, una tremenda violenza, poiché si è necessariamente costretti a considerare la musica sotto diversi aspetti.
Quando si constata che con la Parola, il Suono e il Canto si può uccidere, si può violentare il singolo o il generale, i Popol Vuh tendono di rimando a un tipo di espressione estremamente prudente, intima diremmo, in modo da poter raggiungere, con la musica, un beneficio reciproco.
La formazione dei Popol Vuh: Florian Fricke: Moog, piano, tastiere. Holger Trulzsch: percussioni turche e africane. Frank Fiedler: Moog, mixdown.
Discografia (Ottobre 1972): “Affenstunde”(l’ora della scimmia), pubblicato per la Liberty. ”In den Garten Pharaos”, per la Ohr.
Maurizio Baiata
Tratto da Ciao 2001, n.43, 1972, p.15-16
ciao sono Maurizio dei Ramya&Nuk grazie per questo bel tuffo nel passato
un passato però mai così presente per il mio percorso musicale sempre rivolto
alle più strane e contorte ma quanto mai affascinanti sperimentazioni musicali
al di fuori degli schematismi e dal “populismo” musicale.
certe volte, ripensando a quei tempi mi commuovo fortemente e,ti dirò,li rimpiango come penso noi tutti di una certa età,che ripensiamo a quegli anni come i più belli ed importanti della nostra vita
credo siano stati in assoluto gli anni più creativi da tutti i punti di vista, in cui, mettersi in gioco era l’avventura più affascinante che si potesse intraprendere
io,da kingcrimsoniano e gentlegiantiano di adozione, mi è venuto naturalmente
facile immergermi nel mare delle nuove realtà sperimentali (poche italiane tipo
primi banco mutuo soccorso,perigeo o Garybaldi) anche perchè in quegli anni abitavo a Milano ed era abbastanza frequente assistere a concerti di un certo tipo.
comunque le sensazioni sono forti, quindi continua imperterrito a divulgare
come così bene sai fare tutto quello che di strano ma fortemente coinvolgente
era la musica sperimentale di quei fantastici anni dove vorrei spesso e sovente
rituffarmi piacevolmente
un caro saluto e a presto
Maurizio