È ora di scrivere questa cosa. Dovevo farlo da mesi e mi rammarico del tempo passato, perché la memoria in me tende a offuscarsi. Di quanto sto per raccontare esiste una registrazione in video, effettuata dalla regia di Open Minds, dalla quale ho ottenuto copia in dvd, per mia consultazione. Fornirò una ricostruzione più precisa, rivedendo il filmato della regressione cosciente condotta su di me tre mesi fa dalla dottoressa Ruth Hover. La proposta di tale regressione e relative riprese mi è stata fatta dal regista Tom Ruffin, responsabile delle video produzioni di Open Minds. Tom, sapendo della mia esperienza, ha creduto opportuno richiedermi una testimonianza in “presa diretta”, senza bias o filtri. Ho accettato per la fiducia che ripongo in Ruth Hover, una donna straordinaria che si occupa da decenni di fenomeni di abduction. All’epoca ne vennero a conoscenza poche persone in Italia. Fra queste, la mia seconda moglie Wendy d’Olive, che lavorava con me nella rivista “Stargate”. Poi Cristoforo Barbato, anche lui in redazione (un villino al ventesimo chilometro della via Nomentana, fuori Roma) e Corrado Malanga, che informai telefonicamente la mattina dopo.
Corrado ed io eravamo già fuori dal CUN (Centro Ufologico Nazionale). L’anno doveva essere il 1999. Il mese credo Settembre. Il giorno non lo ricordo. Notte fonda. Mi sveglio, sollecitato da un qualcosa che mi suggerisce di aprire gli occhi. Sono cosciente. Guardo la sveglia. Le quattro in punto. Dalle tapparelle filtra la luce fioca delle lampade dal giardino su cui si affaccia la mia stanza da letto, al secondo piano del villino, che è nella quasi oscurità. Sono sdraiato sul letto e noto sulla mia destra, a circa un metro e mezzo da me, il formarsi nell’aria di una nebbiolina giallastra fatta di corpuscoli luminosi che velocemente sembrano aggregarsi. È passato un minuto, perché mi giro sulla sinistra e sul comodino la sveglia indica le 4.01. Mi dico che sono sveglio e che non sto sognando. Lucido, guardo. La nebbia si aggrega sino a comporre tre sagome, color arancio grigiastro. Due piccole figure, alte circa un metro, una più alta, circa 1 metro e 40. I contorni delle sagome diventano più netti. Vedo le figure dal busto in su. Distinguo al loro interno in alto i visi. Inespressivi. Occhi grandi neri, bocche a fessura. Con la mano destra mi pizzico la coscia destra. Mi dico “ecco, sono qui per me”. Il più alto, in qualche maniera simile al “dottore” descritto da Betty e Barney Hill, sembra ondeggiare sul busto, inclinandosi verso di me come facendo perno sul bacino. Il viso si avvicina. Nella testa sento le seguenti parole in Italiano, “Non avere paura Maurizio, non ti facciamo alcun male”. Automaticamente scatta dentro di me una reazione istintiva, non verbale, ma mentale. Rispondo: “Non vi conviene”. Credo intuiscano quello che intendo dire. Che non mi faccio prendere. Mi stupisco un po’ di questa mia frase. Non aspetto la loro replica. Mi sembra che comunichino all’unisono mediante il più alto. Non mi interessa. Mi giro dall’altra parte, guardo l’orologio, sono le 4.03. Mi dico che loro se ne sono andati e che posso tranquillamente riprendere a dormire. Mi addormento.
Al risveglio al mattino ricordo immediatamente tutto. Lo racconto a Cristoforo, anche lui appena sveglio (dorme nella sua stanza al primo piano. Aspetto l’arrivo di Wendy e glielo racconto. Poi chiamo telefonicamente Malanga e glielo riferisco. Mi dice che possiamo vederci e fare una regressione se lo desidero. Gli rispondo “no grazie, perché tanto non è successo niente”. Sono certo di aver avuto un contatto, che però si è interrotto grazie a una mia reazione automatica di autodifesa (praticavo il Karate da molti anni) che ha indotto i miei visitatori a desistere. Resterò con questa falsa convinzione fino a tre mesi fa. Nell’arco degli ultimi 4-5 anni però ne ho parlato con molte altre persone e pubblicamente, in occasione di conferenze alle quali ho preso parte come relatore, in Italia e negli USA. Lentamente, nel tempo, ho cominciato a nutrire il sospetto che le cose non fossero andate esattamente come le ho appena descritte e ho sempre creduto fossero avvenute. Non avevo più la certezza, quasi incrollabile di prima, soprattutto perché avevo maturato una diversa consapevolezza grazie alle tante persone addotte con le quali ero venuto a contatto. Le loro esperienze e il graduale processo di presa di coscienza rappresentavano un vissuto reale, in parallelo fra noi. Veniva quindi a galla molto lentamente, questa cosa cosi’ tanto interiore da essere quasi impiantata nel subconscio. A meno che non ci fossero stati traumi tali da stravolgere la loro vita quotidiana, il meccanismo di “rimozione” e o di estraniamento dalla diversa realtà prospettata dall’esperienza (che io ricordavo aver vissuto coscientemente sino in fondo) funzionava. Con me aveva funzionato. Insomma, galleggiavo nel dubbio. E ho continuato così sino all’incontro con Ruth McKinley Hover, psicoterapeuta di Fountain Hills, Arizona. Dopo diversi incontri durante conferenze varie, ho sentito la necessità di dire a Ruth cosa mi era accaduto. Le riferii tutto. Ovviamente, anche come credevo fosse andata a finire. Mi disse subito che, volendo, si poteva andare più in là e io la ringraziai per l’invito, declinandolo, o almeno soprassedendo.
La seduta di regressione
Poi, tre mesi fa, un pomeriggio Ruth è arrivata negli uffici di Open Minds, dove lavoravo. Seduti al grande tavolo rosso della redazione le ho riassunto la storia. Ruth mi ha detto che era stata invitata per un’intervista e una seduta di regressione che Open Minds avrebbe voluto riprendere. Tom Ruffin a quel punto è intervenuto nella conversazione chiedendomi se mi andava di sottopormi al test. Ho risposto di sì. Lo studio televisivo di Open Minds è perfettamente attrezzato. Ci sistemiamo su due comode poltrone, Tom funge da regista e da operatore. Ruth mi invita a tornare all’esperienza della quale sappiamo. Mi chiede di descrivere cosa succede. Parliamo tranquillamente. Ruth con voce gentile mi invita a rilassarmi, a mettermi comodo e a ritornare a quei momenti. Il mio sguardo vaga nella sala, osservo la telecamera fissa davanti a noi che riprende (ce n’è una seconda, laterale sulla sinistra). Tom dietro la camera sorride un po’ sornione. Mi sembra di ricordare di avergli detto qualcosa tipo “E se mi metto a parlare in Italiano, invece che in Inglese?” Mi fa cenno di stare tranquillo. Nella sala accanto i tecnici seguono la registrazione. Quadra tutto nella circostanza reale nella quale mi trovo. Mi rilasso nella poltrona comoda. Prima ci sprofondo dentro, ma sento di dovermi tirare su, sul busto e lo faccio. Socchiudo gli occhi e paff!!! Avviene qualcosa. Mi sento investire come da un lampo di luce intensa che proviene dall’alto del lato sinistro dello studio di registrazione. E lo dico subito a Ruth, “Hey, qui c’è una luce forte!”. Ruth mi chiede di tornare al momento in cui quegli esseri erano lì con me, nella mia stanza. “Cosa vedi?” Ecco. Occhi socchiusi, descrivo. Mi trovo in un ambiente buio. So di essere in piedi. Davanti a me, a circa tre metri da me, appare, come sotto la luce di un debole riflettore, un divano molto grande, colore indefinibile, grigio o beige scuro. Ambiente scuro, squallido e disadorno. Una stanza senza finestre. Sedute sul divano ci sono quattro persone. La prima, sulla sinistra la riconosco immediatamente. È M. B., una mia cara amica romana, che vive a New York da dieci anni ed è un’addotta. Le altre persone (credo siano tutti uomini) non le conosco. Sono sedute e mi sembra abbiano le mani poggiate sulle ginocchia, con espressione assorta, quasi imbambolata. I loro visi sembrano leggermente inclinati in avanti. Ai lati del divano, in piedi, ci sono due esseri, di tipo grigio. Altezza non superiore a un metro. Sembrano svolgere la funzione di custodi, o controllori. Non esprimono nulla. Cerco di fissare negli occhi quello che mi appare sulla destra, che vedo meglio. Il contatto visivo però non avviene. Nello stesso istante un altro flash di luce mi inonda la mente, ma ho la sensazione stia veramente invadendo lo studio di registrazione. Sono in grado di vedere lucidamente quello che avviene nello studio, ma sono anche in grado di connettermi con la “visione” della mia esperienza di tanti anni prima. È come schiacciare un bottone del telecomando e passi istantaneamente su un altro canale. Solo che questo canale non lo sto scegliendo, né lo sto cambiando io. “Ahhhhh… ma allora non era finita lì…”. Lo dico a Ruth. “Ora chi c’è con te?” mi chiede. Descrivo quello che vedo. Qualcuno è alle mie spalle, io sono in piedi, sì, sento una presenza dietro di me e ora due mani si appoggiano sulla mia schiena e spingono decisamente in avanti. Cerco di opporre resistenza. E ora davanti a me c’è un altro essere, alto più o meno come me, anche questo apparentemente grigio, ma non riesco a distinguere alcun lineamento, è come un’ombra scura, che mi si para davanti. Le loro mani ora spingono insieme, verso il basso e delicatamente mi ritrovo sdraiato sul pavimento (se lo è). Hanno agito all’unisono, imprimendo una forza strana. Non capisco se sono immobilizzato o meno. (Penso) mi sto agitando. Ormai percepisco perfettamente la situazione. Di certo sento aumentare le pulsazioni. Guardo Ruth, che mi scruta con espressione dolce, quasi materna mi dice: “Tranquillo, va tutto bene, puoi lasciarti andare, sai come fare…”. La scena non cambia, ma c’è un altro flash luminoso, intenso. E ora osservo e vedo me steso e i due esseri ai miei fianchi. (La visuale di questa scena è simile a quella che si ha in una OOBE) Le loro mani sono poggiate sul mio ventre. “Cosa fanno le loro mani?” mi chiede Ruth. Armeggiano – rispondo. E ora all’istante mi vedo indietro nel tempo, all’Aprile 1971, alla sera in cui a seguito di un incidente stradale mi ritrovai in coma al Policlinico di Roma.
Near Death Experience – Esperienza di pre-morte
Passai la notte in un letto in una grande sala con tanti altri ricoverati. Una notte insonne, trascorsa, ne sono certo, fra la vita e la morte. Vissi una NDE (Near Death Experience) il cui ricordo cosciente riaffiorò soltanto molti anni dopo. Vidi tutto, la luce, il tunnel e un viaggio a ritroso e in avanti nel tempo a velocità superluminale. La sensazione di abbandono totale che mi attraeva verso la fine del tunnel di luci vorticose tutte intorno a me, portava a una luce ancora più abbagliante, ma che non feriva gli occhi, avvolgente come il più tenero e focoso degli abbracci d’amore. Nulla di mistico. Poi il dolore mi riportava indietro. Il dolore allucinante allo stomaco, lacerato e inondato di sangue, aveva nuovamente il sopravvento. Tornava violentissimo. Andava e veniva a intervalli di 10 minuti circa e io viaggiavo, avanti e indietro. In stato di coscienza il dolore segnalava la vita. In stato di incoscienza, la sensazione di beatitudine segnalava la morte. Mi operarono allo stomaco, con grave ritardo rispetto all’ora di ricovero, quasi la mattina dopo. Al mio risveglio, aprendo gli occhi, mi vidi in una stanza d’ospedale, con mia madre e mio fratello accanto. Guardavo la scena dall’alto, mi trovavo infatti in astrale vicino al soffitto e vedevo tutto. Fu la seconda parte dell’esperienza di pre morte, nella fase di OOBE.
“Ruth…. Ma c’è un collegamento fra quello che vedo ora e quella esperienza di pre-morte?” le chiedo. Nel farlo capisco che sono ancora perfettamente in grado di determinare gli stati della realtà che sto vivendo. Il contatto con gli alieni nel 1999. L’esperienza di pre-morte del 1971. Sono collegati. Non so se siano la stessa cosa. Non so se gli alieni quella notte del ‘71 erano accanto a me. So per certo che il racconto della mia esperienza di abduction andava ben oltre il momento in cui avevo creduto di averli mandati via. Con buona pace della mia coscienza (forse quel barlume di razionalità che ancora fa capo in me, in rare occasioni) mi avevano preso e, senza che io mi fossi reso conto di nulla, mi avevano portato altrove e avevano operato su di me. Bene. Erano ancora lì, mentre seguivo la scena che Ruth mi invitava ancora a descrivere. Ma non c’è molto da aggiungere. Sono gli ultimi scampoli di una visione. Che svanisce molto velocemente. A occhi bene aperti ora. Chiedo a Ruth come è andata secondo lei. “Bene, Maurizio, hai ricordato molto. Cosa ne pensi?”-“Penso… beh, grazie Ruth, ora so come è andata davvero… penso… che tipo di ipnosi abbiamo praticato?” – “Ti sei solo rilassato e sei entrato nell’altra dimensione”– “Cosa? Vuoi dire la dimensione dove ci sono loro e alla quale possiamo accedere anche noi?” La incalzo. “Sì, hai aperto la porta giusta, vedi, puoi farlo altre volte se vuoi, anche da solo.” – “Ma è solo questione di tecnica?” le chiedo. Sorride. È ora di andare.
Un mese dopo, circa, Ruth mi scrive, in un biglietto che accompagna un libro che mi consiglia di leggere: “Sapevi che i due esseri alti che sono con te hanno occhi dorati? Sono alti, magri e le iridi dei loro occhi sono color oro!!!”. Credo sia necessario vedere la registrazione della mia regressione. Mi manca ancora qualcosa. Senno ci metto altri dieci anni a capire.
Maurizio Baiata
Ahwatukee (AZ) 27 Ottobre 2010
[…] chi sia capitata un’esperienza del genere (a me è accaduta, vedi http://mauriziobaiata.net/2011/10/30/la-mia-esperienza-di-contattoabduction/) ciò che vide Lennon non giunge nuovo. Corpi grigiastri, che sembrano improvvisamente comporsi, […]
[…] chi sia capitata un’esperienza del genere (a me è accaduta) ciò che vide Lennon non giunge nuovo. Corpi grigiastri, che sembrano improvvisamente comporsi, […]
[…] chi sia capitata un’esperienza del genere (a me è accaduta) ciò che vide Lennon non giunge nuovo. Corpi grigiastri, che sembrano improvvisamente comporsi, […]