Condivido alcune riflessioni, alla luce del ponte stabilito fra i primi otto mesi da me trascorsi in Italia e i due recenti anni vissuti a Phoenix, Arizona. La prima riflessione riguarda tre amici Americani.
Strano che qualcuno, durante le conferenze post USA al mio presentare diverse fotografie di persone che definivo “amiche”, avesse avuto da ridire. Chiedevano, “Come è possibile che tutti questi tizi siano amici tuoi?” Lo sono e mi riferisco a tre nomi in particolare: Travis Walton, Bob Dean e Wendelle Stevens, amici di lunga data che nel 2009 e 2010 ho avuto modo di frequentare assiduamente, approfondendone la conoscenza. Il legame con loro è scaturito non solo da un fattore di vicinanza geografica, ma da ciò che altri definirebbero “affinità elettive”. Bob Dean vive ad Awhatukee, dove ho abitato per circa tre mesi. Bob oggi ha 82 anni, la sua salute è a un punto di non ritorno e l’ultima volta che ci siamo incontrati era a metà Dicembre 2010. Con Ken Liljegren, titolare della Spectrum Video & Film di Phoenix, documentarista e produttore della serie TV “Paranormal Matrix”, eravamo andati a trovare Bob e Marcia, sua terza moglie, nella loro bella casa alle pendici della South Mountain, un rilievo roccioso che si affaccia sulla riserva omonima, il luogo preferito dagli hikers e dai joggers di Phoenix.
Quel pomeriggio Ken aveva un compito assai… delicato, sistemare e ricollegare l’impianto video/TV dei Dean, che da un mese circa era fuori uso. La colpa, aveva detto Bob, era solo sua, perché ormai la vecchiaia stava prendendo il sopravvento e il settaggio dell’home theatre non gli riusciva proprio. Così, mentre Ken armeggiava fra i cavi, con Bob ci siamo seduti sul divano per raccontarci le ultime. Io ero in procinto di lasciare l’Arizona. Tutte le mie cose erano già stipate nella mia macchina e nel grosso Suv di Ken, parcheggiati di fronte casa di Bob. Di lì a un paio di giorni Lori Wagner sarebbe venuta a recuperarmi a Phoenix e insieme avremmo puntato verso la California, facendo tappa per cinque giorni a San Diego, per arrivare poi a Los Angeles dove mi attendevano mio fratello Bill e mia cognata Lucia. Mi ha sempre emozionato parlare con Bob Dean. E sentire quanto ci si vuole bene. Mi considero fortunato e privilegiato per questo ed è stato naturale lasciarsi andare. Bob non sapeva della mia esperienza di pre-morte. Gli ho raccontato la storia tutta d’un fiato, terminando il racconto fra le lacrime. Mi ha detto di aver vissuto anche lui una NDE e anzi, quello era diventato il tema – fra i fenomeni umani legati a dimensioni sconosciute – che maggiormente lo interessava, sentendo l’approcciarsi della fine dei suoi giorni terreni. Parlando di reincarnazioni, mi aveva chiesto se mi andava un caffè americano (orrore, diranno i più e lo capisco, ma tant’è, a me piace) ed era tornato con due tazze fumanti, dicendo “vedi questa tazza? È la sola cosa che mi resta dai miei due precedenti matrimoni”. Era di porcellana marrone, istoriata con immagini dei Nativi-Americani.
Quindi abbiamo cenato in uno dei ristoranti tipici di Awhatukee, gastronomia semplice, fra il messicano e il continentale… Gran parte della serata trascorsa a cercare di definire i perché delle cose della vita e io che lasciavo l’Arizona. Con Bob alla fine è stato un lungo abbraccio. Fermo per qualche istante al volante della mia auto, mentre il Suv di Ken iniziava a distanziarsi – non potendomi permettere di perderlo perché in Arizona Ken ci vive da sempre e sembra avere il navigatore incorporato nel cervello, ma io mi sarei trovato ancora una volta “in the middle of nowhere” – mi sono detto, “Forse non lo rivedrò mai più”, ma è stato solo un attimo. Le affinità elettive con Bob Dean restano dentro di me, indelebili. In fondo l’idea di lasciare Phoenix e raggiungere la mia famiglia americana, nella Città degli Angeli, mi stava prendendo dentro ed era un bene aspettare il soffiare forte dei “winds of change” che mi hanno portato al mio rientro in Italia, a fine Febbraio 2011.
Wendelle Stevens è morto il 7 Settembre 2010. Aveva 86 anni e viveva a Tucson (180 Km a sud di Phoenix), ma veniva a trovarci più o meno una volta alla settimana nella redazione di Open Minds e spettava a me intrattenerlo, dato che ci conoscevamo da tanto tempo e il vecchio Wendelle parlava, parlava, parlava e io lo ascoltavo sempre con attenzione e piacere e, spesso, registravo le conversazioni. Lavorando per Open Minds, come direttore del bimestrale, era mio compito intrattenere i rapporti con i collaboratori e ricevere e selezionare i loro articoli. Wendelle era il primo di questi collaboratori. Mi aveva affidato due cd contenenti una quindicina di suoi pezzi inediti. La “superdirezione” di “Open Minds” li aveva ritenuti inadatti allo stile e ai contenuti della testata ed io ero riuscito a farne passare solo un paio, seppure ampliamente editati. Ovviamente, Wendelle se n’era accorto, ma mi aveva lasciato fare, suggerendomi solo di porre attenzione anche agli altri articoli, che è mia intenzione pubblicare in Italia, dato che negli USA non vedranno mai la luce. Per “Open Minds” la sua presenza era scomoda e ingombrante, ma necessaria in quanto l’ex tenente colonnello dell’USAF, a mio avviso il più esperto fra i veterani della Ufologia statunitense, aveva ceduto all’azienda editoriale per la quale lavoravo la sua intera collezione, un monumentale archivio fotografico e documentale frutto di un lavoro di indagine e di raccolta delle testimonianze – da ovunque nel mondo -dal 1948 al 2005. Nell’impossibilità di aggiornarlo ulteriormente, l’archivio giaceva inutilizzato in tre grandi stanze della casa di Tucson, dove Wendelle viveva con la giovane moglie Suzy e in due box di immagazzinaggio. Wendelle avrebbe voluto che l’archivio fosse destinato a un istituto di cultura, o a una struttura di ricerca universitaria, affinché lo custodissero e ne usufruissero a beneficio di generazioni future. Poi però aveva accettato un’apparentemente allettante offerta economica di Open Minds. Così, tutto quel prezioso materiale ora campeggia in una sala degli uffici di Tempe a mo’ di museo. Vi si accede attraverso una porta a vetri sempre chiusa e si può visitare a discrezione della direzione. Appena entrati, in alto sulla parete di destra, si nota subito una bella targa in ottone con su inciso “Per gentile donazione di Wendelle Stevens”. Non è stata proprio una donazione.
Travis Walton non ha mai lasciato la sua cittadina, Snowflake, nella regione delle White Mountains, a 217 Km a nord-est di Phoenix, dove nel 1975 fu protagonista di un caso di abduction da ritenere perfetto e, per questo, sottoposto a una dura azione di debunking (demolizione e discredito) che fu affidata dal FBI alle “sapienti” mani di Philip Klass. Tale opera non ebbe ragione della qualità e della veridicità delle testimonianze dei sei compagni di lavoro di Travis, che lo videro colpito da un raggio emesso dall’UFO e, ritenendolo morto, atterriti si diedero alla fuga. Dagli archivi del FBI da poco sono emersi dei documenti che comprovano come Klass fosse nel libro paga del Federal Bureau of Investigation. Klass, uno dei massimi esponenti dello CSICOP (emulo del nostrano Cicap) lavorava in segretezza a questo caso e a tutti gli altri che avessero ottenuto una certa risonanza e che dovessero essere messi a tacere, d’ufficio, con il crisma dell’autorevolezza da prezzolato giornalistico scientifico. Oggi si spiega dunque meglio il perché di tanta sua solerzia. Inoltre, Walton ritiene possibile un’ipotesi che si va delineando sempre più fortemente in lui. Ovvero, che la ragione primaria della sua abduction fu accidentale. L’essere stato colpito da un raggio che lo tramortì, lasciandolo privo di conoscenza sino al suo risveglio all’interno dell’astronave, fu incidentale e non voluto dagli esseri che erano a bordo di quell’oggetto. La scarica fu potentissima e il corpo inanimato di Travis come una marionetta sospesa a fili invisibili fu sospinto verso l’alto e ripiombò al suolo da circa cinque metri di altezza. A detta di Travis, la sua respirazione si era bloccata. Gli esseri, resisi conto dell’accaduto, lo avrebbero teletrasportato immediatamente a bordo dell’astronave, dove lo sottoposero a interventi medici che gli salvarono la vita. Questo sostiene oggi Travis Walton, il più famoso “addotto” di tutti i tempi. Al quale mancano ancora cinque giorni di memoria lucida dell’esperienza che visse nel 1975. Al quale non va l’idea di sottoporsi a regressione ipnotica (dopo la prima condotta dallo psichiatra James Harder), perché non desidera rivivere quell’esperienza, che per lui come per milioni di altri addotti/experiencers, aveva ed ha risvolti altamente traumatici. Credere oggi in un intervento benefico da parte di esseri dei quali la maggioranza della gente nel mondo ha paura, penso per Travis rappresenti una svolta, almeno nella sua comprensione e superamento ed evoluzione di quanto gli accadde nel 1975. Ho potuto appurarlo di persona incontrandolo nei giorni scorsi a Roma. In albergo, gli ho mostrato il mio primo libro il cui titolo tradotto in Inglese suona “The Aliens saved my life”. Mi ha chiesto: “Posso usarlo per intitolare uno degli ultimi capitoli della nuova edizione del libro Fire in the Sky?” Quando ho deciso quel titolo tutto avevo pensato tranne che potesse colpire Travis. Ma è così. Abbiamo ragioni ed esperienze in comune. Ci piace molto la Musica Rock. Abbiamo entrambi praticato a lungo le Arti marziali. Ci sentiamo vicini in molte cose. E ci fidiamo l’uno dell’altro.
Maurizio Baiata
Rispondi