A 46 anni dalla sua pubblicazione su “Gong”, un articolo che invita ancora ad alzare la voce per cambiare il mondo
Di Maurizio Baiata
3 Agosto 2022
Un mio articolo intitolato “Lettera Aperta – In difesa di Francesco Guccini” venne pubblicato nel numero 4 dell’Aprile 1976 di “GONG”, mensile di musica e cultura, concorrente di “Muzak” nel cui Collettivo di Redazione militavo come responsabile del Rock. A quel che ricordo, il pezzo su Francesco mi fu richiesto dal Direttore di “Gong” Antonino Antonucci Ferrara e dal caposervizi Peppo Del Conte, durante una mia visita a Milano. Eravamo in macchina insieme al mai dimenticato Marco Fumagalli. Si parlava dei cantautori, nei confronti dei quali il periodico nutriva un malcelato “distacco”, se non avversione, come provavano le sue pagine sempre prive di articoli sui nostri cantautori. Io invece ne amavo uno svisceratamente, Francesco Guccini e mi dissi disponibile a scrivere un pezzo su di lui. Lo avevo incontrato e intervistato già un paio di anni prima per Ciao 2001 e Guccini, dal canto suo, aveva scritto “L’avvelenata” indirizzandola ai critici musicali, in particolare il recensore più famoso del settimanale romano (“il prete”), e la “penna” più prestigiosa di “Gong” (menzionato con il cognome).
Il contenuto di questo articolo, qui riproposto integralmente, credo sia attuale ancora oggi. Se nella “Lettera Aperta” di allora invitavo Francesco ad esporsi ancora di più riappropriandosi del suo ruolo di cantore delle cose vere, piccole o grandi che fossero, per cambiare la società anche sapendo che essa non sarebbe mai cambiata, oggi, in un Paese pressoché ridotto al silenzio e musicalmente avvilito nel totale e conformistico “disimpegno artistico”, quanto vi accingete a leggere sarebbe bello fosse recepito dalle voci non allineate, che vogliano tornare ad ergersi “cantori delle cose vere”, assestando così mortiferi ganci sinistri al fegato del cicaleccio politico e dei media asserviti al potere. Lasciandoli senza fiato, piegati su stessi, sorretti dai secondi sino all’angolo uscendo pietosamente di scena. A questo serve l’arte della parola, cantata nel vento.
Ospitandomi sulle sue colonne, nel corsivo introduttivo alla “Lettera Aperta a Francesco Guccini”, la Redazione di “Gong” presentava le ragioni della propria scelta editoriale. Eccole.
Abbiamo sempre manifestato la nostra profonda diffidenza per il filone cromato in oro dei cantautori italiani, per il loro facile e sospetto successo commerciale. Ospitando questo intervento non intendiamo cospargerci il capo di cenere, né fare precipitosamente macchina indietro. Semmai vogliamo dimostrare che non esistono in Gong atteggiamenti settari e chiusure irrazionali. Molti di noi condividono solo in parte gli argomenti di Baiata, ma da essi è comunque possibile avviare sulla sostanza e non sui miti un dibattito che giustamente si muove dal musicista più rappresentativo, capostipite forse involontario di un modo di far musica all’italiana.
«La casa sul confine dei ricordi, / la stessa sempre come tu la sai / e tu ricerchi là le tue radici / se vuoi capire l’anima che hai… »
«Si alza sempre lenta come un tempo / l’alba magica in collina, / ma non provo più quando la guardo / quello che provavo prima, / ladri e profeti di futuro / mi hanno portato via parecchio, / il giorno è sempre un po’ più oscuro, / sarà forse perché è storia, / sarà forse perché invecchio…»
Due anni separano questi testi ed il mare gucciniano è mutato profondamente, la sua forza cresciuta, nella violenza fatta a se stesso di raccontare la propria vita – son sempre qui a vivermi addosso – nella sincerità di una storia personale che Francesco offre ormai senza ricorrere più a simbolismi e favole, mentre il suo linguaggio pessimista, ancora dolce, va giusto in fondo all’anima – «bere il vino sputtanarsi ed è una morte un po’ peggiore» – e ti accorgi che questa musica, queste parole ti appartengono, come le avessi scritte tu, anche nella fatica di un riconoscersi scomodo, forse squallido. Guccini, ovvero una generazione che in lui si riflette, lasciata andare nel Dopoguerra e nel mito, persa nelle contaminazioni delle storie di partito, nelle non realtà di una vita quotidiana che ha rinunciato all’ideale politico, ha finito la speranza.
Eppure la crescita di questa generazione è stata cantata nel segno di una disfatta del coraggio, nel racconto di piccole storie quasi insignificanti – la canzone della triste rinuncia, la canzone della bambina portoghese – in cui esiste un’interazione che Guccini ha sempre cercato, voluto nonostante i suoi racconti divenissero col tempo più freddi e difficili, coraggiosi in quanto sinceri, dalla lotta infantile alla grande rivoluzione di classe, tutto ha un suo significato reale, che è coscienza dei fatti e speranza senza ipocrisia, proprio nella vita quotidiana.
Due anni, ed il passaggio dai temi del «tempo andato» a quelli della realtà di ogni giorno: non c’è stata frattura, non sono analisi di due diverse realtà sociali, bensì la logica di ogni giorno, nei pensieri spesi alzandosi al mattino, chiedendosi i perché di una giornata da vivere intensamente. Ed è giusto in questo il rifiuto, da parte del modenese, di cantare il tout court, magari stupendo gli ascoltatori nel coraggio con cui il tema è esposto, quando Francesco va a scegliere il suo «momento storico» con coscienza, analizza il tempo di vivere, non più quello di sognare sulle cose perdute o mal fatte.
Le «stanze» dimostrano i rifiuti per le cose piccolo-borghesi, i rifugi ai quali approdare nei momenti di sconforto, le isole irreali ma razionali che sono la droga ed il bere, sono il viversi addosso «da poeta ed ubriaco, quando picchierai la testa contro i tuoi perché», sono la coscienza di non chiudersi nel ghetto dei ricordi e delle omissioni, quando in Guccini esprimere la vita quotidiana è ormai segno di consapevolezza politica.
Cosa ci ispirava, cosa ci colpiva di lui? Gli anni, i mesi ed i giorni che passavano, il riflusso di esperienze quotidiane, il déjà vu di dolci esperienze d’amore e quindi era il sogno, quando il sogno non ha valore né significati, perché l’uomo che basa la sua vita, anche per un solo istante, sulla segretezza di un ricordo, di un momento passato, non è più uomo, non crea, non vive, né individualmente né socialmente.
Questo stato di cose, il comprenderle, ecco il problema che tanto scotta ai gucciniani convinti, ai convinti assertori di vite che sono il riflesso di altre vite, di passioni che sono rimembranze, di strade di provincia cui incatenarsi per giungere alle nuove città del pensiero, di solitudine di esistenza di amore a metà di comunicazione falsa, insomma le cose che fanno una canzone, cioè quello che Francesco ha sempre combattuto.
Lentamente, questo poeta che poeta non è, ha superato una fase critica gravissima, si accosta ai quaranta con una gioia inimmaginabile, e resta il solo in grado di comunicare pienamente – forse insieme e soltanto ad un Gaber – una sua verità personale, che ci appartiene perché specchio di ogni giorno, perché è politica, lotta in famiglia, in fabbrica, perché è vivere da immigrato e in servizio militare, in banca o alle presse della Fiat. Ed è questo per Guccini l’uscire dal ghetto, solo attraverso l’appartenenza ad una coscienza di classe, e non ai giochi del sistema. Si potrà obbiettare che tutto questo, alla luce degli album, discografici, non appare. Si potrà dire di un Guccini ermetico, schivo all’abbraccio caloroso con la gente, si potrebbe accusarlo di revisionismo, di far musica per una élite ristretta, non si comprenderà il Guccini liberato finalmente dalla paura di cantare La locomotiva o Primavera di Praga, di urlare in faccia alla gente, con rabbia.
Del vecchio Francesco, per quello che ci attendiamo da lui, dovrebbe apparire tra poco il suo nuovo Lp, di nuovo a due anni di distanza dal precedente, non è rimasta che la maturazione, la musica «dylaniata» estrapolata finalmente dal contesto americaneggiante, mitico della giovinezza, è nata in lui una prosa realistica, che non ha bisogno dell’America per esprimere quanto avviene in Italia, non cerca il sogno per simboleggiare una realtà scottante, non crede in terre mitiche o bolle pontificie con le quali suggellare e chiudere una persona nel suo nuovo ghetto che anche Francesco, un tempo, può aver aiutato a costruire, sbarrando il passo al verismo quotidiano, rifugiandosi, sull’Isola non trovata od alla ricerca delle sue Radici.
Francesco comunque ha fatto, e deve fare soprattutto, ben altro, ed il prossimo lavoro lo vorremmo più immediato e polemico, che parli senza inutili enfasi della condizione operaia, che dica dei lunghi mesi di naja, che racconti della droga governativa, che riporti lo scandalo di un paese come il nostro, che le sue stanze si allarghino alle strade, respirino senza «cultura millenaria sospesa in aria»: Francesco ha fatto promesse che vanno mantenute.
Dovrà ancora una volta spogliarsi di tutto, lasciare che le cose gli scorrano intorno e cantarle, ancora più crudamente e con coraggio, una forza che non gli è mai mancata ma che potrebbe stemperarsi nell’età, mentre «le strade sono piene di una rabbia che urla più forte» e gli anni hanno privato di bellezza anche quel Sessantotto che l’uomo ha vissuto… Ed ora un mare di domande, l’anarchia affiorante nei testi, il socialismo, il populismo, la «cultura» di cose americane, la professione, ma insomma ci attendiamo solo delle precise risposte, che Venditti e De Gregori e Dalla sembrano voler lasciar alla «poesia», al successo delle cose dette a metà; e Francesco, solo lui, sarà ancora lo specchio di una generazione, delle sue irrealizzazioni, della sua paura di vivere.
Compito durissimo, quello di Guccini, rendere testimonianza ad ogni passo, in barba anche ai più neri pessimismi. «E poi e poi gente viene qui e ti dice di sapere già ogni legge delle cose; e tutti, sai, vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote; e tutti, sai ti san dire come fare, quali leggi rispettare, quali regole osservare, qual è il vero vero; e poi e poi, tutti chiusi in tante celle, fanno a chi parla più forte per non dire che stelle e morte fan paura». Sono parole di Francesco, di qualche tempo fa – La canzone della bambina portoghese – che non tutti hanno compreso, un dramma che era speranza, non la gioia semplice ed inutile di un’esperienza negativa, gucciniana, e quanto è stato scritto mentre non si comprendeva che il succo era che «quel vizio che ti ucciderà non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere».
Maledizione, Francesco è riuscito a dirlo, senza mezze frasi, perché il suo vivere è anche il nostro, chiede semplicemente un dialogo che l’industria, la società, il sistema gli negano come uomo e come artista.
Ancora una domanda – la lettera aperta, ecco la formula giusta per un articolo – di avere coraggio sino in fondo, di sapersi divertire come ha fatto nel più misconosciuto dei suoi lavori, quell’Opera Buffa che solo i modenesi hanno compreso, o ne hanno saputo ridere in pochi, perché è musica fatta per strada, quando reinventa la Genesi e pennella furiosamente sulle canzoncine della sbarbata mattutina, quando attacca la cultura scolastica e gli accidenti che ne vengono, e la politica clericale e fascista, tutto con la sua lingua raffinata, suadente, la sua erre moscia che scopri piace tanto al compagno di banco o al garzone del macellaio, quell’equilibrio elegante che è semplicemente frutto di un uomo ormai alle strette, allo scoperto, emotivo, che si deve conoscere, disprezzare o amare: questo fino ad ora ha proposto, senza salire in cattedra, con umiltà, questo c’è da rendergli, con coraggio.
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