Ho rivisto alcune sere fa in dvd (quanta difficoltà per reperirlo, dopo lunga e infruttuosa ricerca nei negozi l’ho ordinato e ricevuto grazie a internet) “L’Ultimo Samurai”, il film del 2003 diretto da Edward Zwick e co-prodotto da Tom Cruise che ne è anche protagonista con Ken Watanabe.
Allo stesso regista si deve un altro splendido ma misconosciuto film, “Glory”, con Matthew Broderick, Denzel Washington e Morgan Freeman. Due pellicole che rappresentano l’apologia dell’Onore sotto la chiave di lettura del valore, del sacrificio, della dedizione, del credo nell’essere umano e in una dimensione superiore. Seppure inscritto in uno scenario “bellico”, mentre per Spielberg e altri mostri sacri di Hollywood gli Oscar sono sempre fioccati laddove il racconto mostrasse che la guerra è un male necessario per liberare popoli oppressi da una tirannia, a “L’Ultimo Samurai” non venne assegnato alcuna statuetta, nonostante quattro nomination. Eppure è un capolavoro. Nel rivederlo, le ragioni mi sono apparse evidenti, quasi brucianti, suscitate dalle emozioni fortissime che la storia, le scenografie, i panorami, le persone, le immagini e le musiche provocano.
Nel 1876, Nathan Algren (T. Cruise) è un malridotto capitano dell’esercito americano, eroe torturato dal rimorso dei massacri di pellerossa di cui le giacche blu (soprattutto del generale Custer) si macchiavano per eliminare una minoranza etnica. Proiettato nella realtà di un Paese lontano, Algren si confronta con un Giappone non più feudale, in effetti in piena decadenza dell’era imperiale Meiji, ma legato strettamente alle sue antiche tradizioni. Un Giappone destinato inevitabilmente a trasformarsi in un’entità socio-politica da inserire nel mondo moderno, a contatto con le nazioni occidentali. Nathan troverà se stesso, mentre il rinnovamento porterà il Sol Levante, nel volgere di mezzo secolo, al confronto ultimo con le potenze del nuovo mondo. È solo un mio modo di vedere, ma credo giusto dire che tale confronto produrrà la decisione degli Stati Uniti di sganciare gli ordigni nucleari su Hiroshima e Nagasaki per schiacciare e umiliare un nemico indomito che, in realtà, era da tempo pronto a firmare l’armistizio. Essendo in grado di intercettare le loro radio trasmissioni, i servizi segreti militari americani erano perfettamente a conoscenza delle intenzioni dei Giapponesi. Pobabilmente anche la Casa Bianca ne era al corrente, ma il Giappone doveva essere brutalizzato, annientato e l’onore del suo popolo cancellato con la distruzione atomica. Questo, però, nei libri di Storia ufficiale non c’è scritto.
Anche se la millenaria casta dei Samurai (letteralmente, “colui che serve”) dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo finì per perdere in importanza e in influenza socio-politica interna, il codice e la tradizione guerriera del Bushido rimasero e sono ancora presenti nello spirito di questo Paese. Il film di Zwick ci restituisce tale spirito nella sua essenza più pura. E, ovviamente, denuncia l’arroganza, l’ignoranza e la protervia di nazioni occidentali capaci solo di distruggere ciò che il passato ha costruito in maniera sublime e che Nathan tocca con mano. Per questo il film ha ottenuto riconoscimenti di critica e il successo nelle sale, ma nulla dall’establishment di Hollywood, che premiò con l’Oscar come miglior film “Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re”. Meglio un kolossal fantasy, che un film di denuncia alla finta democrazia globale di Washington. Si pensi al coraggio di un Clint Eastwood che, per restituire un minimo di equilibrio storico alla battaglia di Iwo Jima, ha realizzato lo stesso film in due versioni speculari, “Flag of Our Fathers” dal punto di vista americano e “Letters from Iwo Jima” dal punto di vista giapponese.
Ora, il vero senso de “L’Ultimo Samurai” è, a mio avviso, un percorso iniziatico di comprensione (in Inglese si userebbe il termine “compassion”) di una cultura diversa, che agli occhi di Algren appare inizialmente “aliena”, attraverso l’apprendimento della via della Spada. Per capire insieme cosa questo significhi mi riferisco a una sequenza del film di Zwick nella quale Nathan raggiunge per la prima volta, dolorosamente (ma lui il dolore sa già cosa è), lo stato di grazia del distacco mentale nella pratica del “bo”, il bastone con cui ci si addestra nel combattimento figurato con un compagno. Un momento magico, assoluto, perfetto, sospeso nel tempo e nello spazio, quello in cui il protagonista incrocia l’arma con il suo avversario e insieme giungono a colpire all’unisono il bersaglio fermandosi a pochi millimetri dalla gola, senza ferire. È il primo “pari” dell’apprendista samurai, prima veterano comandato e votato a uccidere e ora finalmente guerriero… nella non violenza e vorrei dire, nella pace.
Da poco più di 60 anni, dismesse le armi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, arti marziali come Kendo, Karate, Aikido e Judo hanno consentito al popolo giapponese di conservare le tradizioni del Bushido trasferendole sul piano dinamico a livelli meramente sportivi, agonistici e del benessere psicofisico. Chi però ha avuto modo di praticare a lungo almeno una di queste arti marziali è stato portato a scoprire altri significati, per alcuni sino a trovare dentro di sé la propria quintessenza vitale, la fonte energetica del “Ki”. Nel rivedere il film quindi ho ripensato alle centinaia di ore che ho trascorso nei dojo, in Italia e negli Stati Uniti, praticando il Karate. Iniziai nei primi anni Settanta con i Maestri romani dello stile Wado Ryu, Raniero Abeille e Paolo Ciotoli della FIK (gloriosa sigla della Federazione Italiana Karate fondata da Augusto Basile), i cui dojo ho frequentato per una decina di anni sino a conseguire la cintura marrone.
Trasferitomi negli anni Ottanta a New York City mi misi alla ricerca di un dojo dove si insegnasse il mio stile. Niente da fare. Allora approdai al dojo del Maestro Kaicho T. Nakamura, fondatore dello stile Seido Karate. Era una magnifica palestra sulla 23.ma strada a Manhattan, frequentata da atleti americani, molti dei quali neri e da giapponesi. Penso di essere stato il primo e unico italiano a calcarne il tatami. Come da prassi, indossai la cintura bianca e, con umiltà (ma molto rodimento interiore) ricominciai da capo. Dopo alcuni mesi passai il primo esame a cintura gialla e questo mi consentì di fare da “sparring partner” anche con cinture più alte. Il risultato fu che, in seguito a un’incomprensione con una cintura verde giapponese (che non parlava una parola di Inglese), Il M. Nakamura mi riportò a cintura bianca. Lasciai il dojo.
In seguito, essendomi trasferito in un appartamentino nella Lower East Side, trovai il dojo del Maestro Wilfredo Roldan, allora quinto dan nello stile Nisei Goju Ryu. Roldan è nativo di Porto Rico. Si sa che fra Italiani e Portoricani non è mai corso buon sangue, come testimonia il film “West Side Story”. Con Roldan invece fu simpatia e stima reciproche a prima vista. Mi confermò la cintura marrone e mi diede l’incarico di insegnare i rudimenti del Karate in qualità di Senpai (studente anziano) ai bambini. Fu un’esperienza memorabile. Che rifarei adesso a occhi chiusi. Lasciata Manhattan, nel verde di Westwood, nel New Jersey trovai la palestra del Maestro Nagayasu Ogasawara, settimo dan di Judo e quarto di Karate. Il suo dojo è un’oasi di pace e di fratellanza. Ancora una volta, una magnifica esperienza. Questo, per ricordare che la strada delle arti marziali è lunga e, in fondo, non ha una meta. Percorrerla vuol dire apprendere molte cose che nulla hanno a che vedere con la violenza, l’imporsi sull’altro con la forza e il primeggiare per ottenere una medaglia o qualsiasi altro riconoscimento. Percorrerla vuol dire semplicemente andare incontro al nostro destino e, come ricordano le parole di Katsumoto ad Algren nel finale di questo magnifico film, vivere in Armonia, sino al momento in cui i nostri occhi vedranno la perfezione dei boccioli in fiore e potranno chiudersi per riaprirsi a una nuova vita.
Maurizio Baiata (Ottobre 2011)
Ispirato a un avvenimento reale,la rivolta di Saigo Takamori
http://en.wikipedia.org/wiki/Saig%C5%8D_Takamori
bellissimo il suo Haiku Seppuku
Se fossi una goccia di rugiada
potrai rifugiarmi sulla punta di una foglia
ma sono un uomo
non cè piu spazio per me in questa terra.
Molto ben fatto il kenjutsu del film ( duelli e combattimenti ), anche se i katana sono manipolati.
L’ unico film dove ho visto katana veri rimane il prodigioso Yakuza di S. Pollack.
Magnifico il kata Shatsu to, stile Muso Jikiden Ryu eseguito dall’ attore Takakura Ken.
Film imperdibile !!!!!
Ciao Maurizio.
zio ot